Di uno
che entra nel suo trentesimo anno non si smetterà di dire che è giovane. Ma
lui, benchè non riesca a scoprire in se stesso alcun mutamento, non ne è più
così sicuro: gli sembra di non avere più diritto di farsi passare per giovane.
E la mattina di un giorno che poi scorderà si sveglia e, tutt’a un tratto,
rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi, colpito dai raggi di una luce
crudele e sprovvisto di ogni arma e di ogni coraggio per affrontare il nuovo
giorno. Non appena chiude gli occhi per proteggersi, si sente andar giù e
precipita in un deliquio in cui trascina con sé ogni istante vissuto. Continua
a sprofondare e il suo grido non ha suono (privato anche del grido, di tutto
privato!) e precipita in una voragine senza fondo finché non perde i sensi,
finché non si è dissolto, spento e annientato tutto ciò ch’egli credeva
d’essere. Quando riprende conoscenza e tremando ritorna in sé, quando
riacquista forma e ridiventa una persona che ha fretta d’alzarsi e uscire alla
luce del giorno, allora scopre dentro di sé una nuova meravigliosa facoltà. La
facoltà di ricordare. Non gli capita più, come sino a quel momento, di
ricordare questo o quello quando meno l’aspetta o perchè lo desideri, ma è
piuttosto una necessità dolorosa quella che lo costringe a ricordare tutti i
suoi anni, quelli lievi e quelli travolgenti, e tutti i luoghi dove in quegli
anni aveva abitato. Getta la rete della memoria, la getta attorno a sé e tira
su se stesso predatore e insieme preda, oltre la soglia del tempo, oltre la
soglia del luogo, per capire chi egli sia stato e chi stia diventando.
Ingeborg
Bachmann, Il trentesimo anno
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