sabato 14 ottobre 2017

Avevo solo le mie tasche




Per quarantadue anni Alberto Paolini ha potuto scrivere i suoi pensieri solo su piccoli frammenti di carta da nascondere nelle tasche. E questo, grazie ad un infermiere che un giorno, invece di comprare le sue solite cinque sigarette sfuse, ne chiese al tabaccaio quattro più una matita. “Quella matita costava 25 centesimi di lire”, ricorda mentre, con calligrafia perfetta e lenta, scrive una dedica sul libro che racchiude la sua vita:  “Avevo solo le mie tasche. Manoscritti dal manicomio” (edizioni Sensibili alle Foglie).
Una biografia straordinariamente disarmante, minuziosamente descrittiva, intima, densa di riferimenti oggettivi, profondamente emozionante. Racconta la sua infanzia da orfano, i 42 anni trascorsi in manicomio senza che su di lui sia mai stata emessa una sola diagnosi che giustificasse il ricovero, sino alla lettera scritta ad un assessore romano quando, a 65 anni, gli si prospettò di essere chiuso di nuovo, ma questa volta in un pensionato.

Un giorno arrivò in orfanotrofio una signora che non voleva un orfano qualsiasi:  voleva uno che non avesse proprio nessun parente. “Era una ricca svizzera, sposata con un signore di Roma il quale, durante la guerra, aveva fatto i soldi grazie ai militari stranieri che andavano a bere nel suo locale, vicino piazza di Spagna”, ricorda Alberto.  “E cosi le presentarono proprio me, che ero forse l’unico a non avere proprio nessuno al mondo”, ci racconta con voce lenta e pacata. Furono brevi i suoi giorni nella casa dei suoi nuovi genitori: “Pensavo che mi avesse preso per volermi bene, invece scoprii col tempo che lei, la moglie, lo aveva fatto per un solo motivo: voto alla Madonna. Aveva promesso che, in cambio di una grazia, si sarebbe portata a casa un orfano”.

Ricorda Alberto: “La signora sosteneva che io ero meno vivace di quel che, secondo lei, doveva essere un bambino della mia età. E cosi mi portò dal dottor De Santis, che mi diede solo una cura: quella di uscire di casa, di frequentare altri bambini”. Il medico le spiegò che, dopo tanti anni di orfanotrofio, era normale che Alberto non sprizzasse gioia da tutti i pori. “Le disse che avevo solo bisogno di uscire all’aria aperta, quanto meno di vedere Roma, per esempio, dato che non avevo mai visto niente”. E invece non andò cosi. Qualche anno dopo, De Santis scoprì che il bambino era finito al Santa Maria della Pietà.
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Come è possibile, da sani, finire per 42 anni in manicomio? Paolini trova la risposta nella storia, sua e della collettività: “Ero un bambino senza nessuno nel momento in cui Roma si stava organizzando per il Giubileo del 1950. Era un evento importante per la riconciliazione dopo la guerra. E quindi dovevano liberare le strade da bambini orfani, come me, dai mendicanti, dai poveracci che c'erano in giro, che avrebbero fatto fare brutta figura alla capitale. I collegi erano ormai tutti pieni e quindi molti furono messi nei manicomi”.

Spiega Alberto:  “Se  non si presentava nessuno, allo scadere del mese, il paziente veniva convocato dal medico che, dopo un sommario esame che consisteva in qualche domanda di rito, ascoltato il parere della suora caposala e magari dopo una scorsa superficiale alle relazioni degli infermieri, poneva al paziente una diagnosi di malattia mentale, con attestazione di 'pericolosità’ e quindi decideva il suo trasferimento in un padiglione di internamento”. Fu così che Alberto finì al padiglione VI, quello dove si praticava l’elettroshock.

Alberto nel suo libro racconta, di fatto, la psichiatria di quegli anni, dall’interno. “Nel 1948  – racconta –  c’era tra gli psichiatri una grande euforia: era stato praticato da poco tempo, ad opera del professor Cerletti, un nuovo metodo di cura per le malattie mentali, basato sull’applicazione di una serie di scariche elettriche in rapida successione, sulla testa del paziente. Si otteneva cosi un effetto simile ad un attacco di epilessia. A questo metodo rivoluzionario era stato dato il nome di elettroshock-terapia. Insomma, tutti i medici erano convinti che si trattasse di una specie di toccasana per ogni forma di disturbo mentale. Per questo veniva applicato con disinvoltura sulla maggioranza delle persone ricoverate negli ospedali psichiatrici di allora.
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Una diagnosi c’era e diceva che Alberto stava bene. L’aveva fatta il professor de Santis qualche anno prima. “Non basta che questo ragazzino sia finito in manicomio - disse all'epoca lo psichiatra - adesso gli fanno pure l’elettroshock e senza neppure avvertirmi”. “Grazie a lui - riferisce Alberto - non mi fecero più elettroshock. Era indignato il medico contro la decisione della signora di farmi chiudere in manicomio, ma non poteva farci niente, perché queste erano state le decisioni dei miei benefattori”. 
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Alberto iniziò a scrivere un diario. “Ma non avevo modo di conservare le cose che scrivevo - racconta Alberto - se non tenendole in tasca. E cosi scrivevo in piccolo e il più coinciso possibile, per non occupare spazio nelle tasche… avevo anche difficoltà a procurarmi dei fogli. Usavo le cose che potevo rimediare… C’era un ricoverato al quale portavano i grissini che erano avvolti dal cellophane ed io avevo scoperto che dentro il rivestimento c’era una striscia di carta con la scritta ‘grissino’. Prendevo questi foglietti e li utilizzavo per scrivere”.

E’ davvero straordinaria la lucidità e la pacatezza con cui Alberto, oggi più che ottantenne (è nato nel 32) racconta quel che è stata la sua vita, senza un briciolo di rabbia. Il suo libro è uno straordinario spaccato di umanità, incastonato nella storia d’Italia. (...)
Il modo in cui Alberto racconta le "alterne fortune" dell’elettroshock al Santa Maria della Pietà dovrebbe essere studiato nelle università; scrive Paolini: “Praticamente scomparso negli anni Cinquanta, l’elettroshock ritornò dopo il ‘55 con il nuovo direttore, il professor De Giacomo, ma in una nuova veste: anziché essere applicato al paziente da sveglio, gli veniva praticata una’iniezione endovenosa di curaro, sostanza paralizzante del sistema muscolare”. La pratica “furoreggiò”, racconta Alberto, nei vari padiglioni: “Negli anni Sessanta, anche se non ai livelli degli anni Quaranta, ciascuno dei medici si sbizzarriva e accoppiava l’elettroshock ora con uno, ora con un altro farmaco, a seconda del loro gusto personale”. Sparì  solo nel  ’68,  per poi ritornare “nel corso degli anni Settanta, ma in grande stile e ancora con una nuova veste: la macchina era ancora più piccola, una specie di cuffia, da azionare tenendola con una sola mano”.

E nel 1978, venne l’anno della legge 180. “L’elettroshock - scrive Paolini - ancora una volta fu messo sotto accusa, al punto da sparire negli ospedali psichiatrici pubblici. Ma resistette ancora nelle cliniche e negli ospedali privati. Ora si dice che stia preparando un grande ritorno. Sono proprio curioso di sapere come andrà a finire. Dicono di seguire Basaglia, ma a me pare proprio di no”.










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