lunedì 2 ottobre 2017

Souls at night




E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio.
Vivevano a un isolato di distanza in Cedar Street, nella parte più vecchia della città, olmi e bagolari e un solo acero cresciuti sul ciglio della strada e prati verdi che si stendevano dal marciapiede fino alle case a due piani.
Era stata una giornata tiepida, ma di sera aveva rinfrescato. Dopo aver camminato sotto gli alberi, la donna svoltò all’altezza della casa di Louis.
Quando Louis le aprì la porta, lei disse, Posso entrare a parlarti di una cosa? Sedettero in salotto. Vuoi qualcosa da bere? Un tè? No, grazie. Non so se mi fermerò abbastanza per berlo. Si guardò intorno. È graziosa la tua casa. Diane l’ha sempre tenuta bene. Un po’ ci provo anch’io. È ancora graziosa, disse lei. Erano anni che non ci venivo. Guardò fuori dalla finestra verso il cortile laterale, la notte si stava accomodando fuori e dentro la cucina, una luce illuminava il lavandino e il bancone. Tutto sembrava pulito e ordinato. Lui la stava guardando. Era una donna attraente, l’aveva sempre pensato. Quando era più giovane aveva i capelli scuri, ma ormai erano bianchi e li portava corti. Era ancora in forma, solo un po’ appesantita in vita e sui fianchi.
Probabilmente ti stai chiedendo cosa ci faccio qui, disse lei.
Be’, non penso tu sia venuta per dirmi che casa mia è graziosa.
No. Volevo suggerirti una cosa.
Eh?
Sì. Una specie di proposta.
Okay.
Non di matrimonio, disse lei.
Non pensavo neppure questo.
Però c’entra con una specie di matrimonio. Ma ora non so se ci riesco. Ci sto ripensando. Fece una risatina. In un certo senso è un po’ come un matrimonio, non ti pare?
Che cosa?
L’indecisione.
Può darsi.
Sì. Insomma, adesso te lo dico.
Dimmi, disse Louis.
Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me.
Cosa? In che senso?
Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare.
Lui la fissò, rimase a osservarla incuriosito, cauto.
Non dici nulla. Ti ho lasciato senza parole? chiese lei.
Penso proprio di sì.
Non parlo di sesso.
Me lo stavo chiedendo.
No, non intendo questo. Credo di aver perso qualsiasi impulso sessuale un sacco di tempo fa. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire.
Le notti sono la cosa peggiore, non trovi?
Sì. Credo di sì.
Alla fine per addormentarmi devo prendere delle pastiglie, leggo fino a tardi e poi il giorno dopo mi sento intontita. Totalmente inutile per me stessa e per gli altri.
È successo anche a me.
Eppure, se ci fosse qualcuno a letto con me, credo che ricomincerei a dormire bene. Una persona carina, un senso di intimità. Parlare di notte, al buio. Rimase in attesa. Cosa ne pensi?
Non so. Quando vorresti cominciare?
Quando vuoi. Ammesso che tu ne abbia voglia, rispose lei. Questa settimana.
Dammi un po’ di tempo per pensarci.
Va bene. Ma chiamami prima, se e quando deciderai di venire. Così saprò che ti devo aspettare.
D’accordo.
Spero proprio di sentirti.
E se poi russo?
Vorrà dire che russi, oppure imparerai a non farlo.
Louis scoppiò a ridere. Sarebbe una novità.
Addie si alzò e uscì per tornare a casa, lui rimase sulla porta a guardarla, una donna di settant’anni di corporatura media, con i capelli bianchi, che si allontanava sotto gli alberi, passando attraverso le chiazze di luce proiettate dal lampione all’angolo della strada. Ma che diavolo, si disse. E adesso cerca di non essere precipitoso. 
 
Kent Haruf, Le nostre anime di notte






 

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