"Se vuoi andare lontano, vai in compagnia"
Ho scoperto che le notizie, le “breaking news”, e il tempo passato compulsivamente davanti allo schermo, mi facevano malissimo, disintegravano la mia capacità di concentrarmi, mi rendevano nervosa e confusa 24 ore su 24. Prima insieme ai miei compagni di lavoro, e poi per conto mio, ho cercato di capire perché. Intanto vedevo amiche, amici e colleghi soffrire di sindrome da stress post traumatico secondario, cercare aiuto, cambiare mestiere – per non parlare di chi in vari modi è morto di crepacuore.
Con molta fatica, ho provato a riavviare la macchina. A togliere le miriadi di notifiche dal telefono. A non ascoltare la rassegna stampa proprio tutte le mattine. A tornare a leggere dei libri, a giocare, a cucinare, ad ascoltare la musica – occupazioni che ti sembrano gratuite e autoindulgenti se pensi costantemente che il mondo sta andando a fuoco. A stare il più possibile con persone che fanno, che allevano, che costruiscono nonostante tutto.
Così, ho scoperto che ho un limite. Non posso gestire, elaborare, processare più di una certa quantita di informazioni al giorno – soprattutto se contengono sofferenza, morte, sangue, ingiustizia, sopruso – senza perdere la lucidità, la calma, e in fin dei conti, la capacità di comprenderle e di inserirle in un sistema di collegamenti, senza la quale le informazioni non servono a niente, nè a me né agli altri.
E ho scoperto che negli altri esseri umani, nei libri, nella natura, nell’arte, c’è una possibilità di rigenerazione e trasformazione che è essenziale a processare quelle stesse informazioni e a mantenere un certo livello di empatia e di ragionevole impegno politico a lungo termine. Il fiato che mi danno quelle interazioni, non letterali, lontanissime dall’informazione stretta, è anche quello che mi permette di partecipare alla vita sociale con pazienza e fiducia, di apprezzare il fatto che le nuove connessioni ci hanno dato anche enormi opportunità, e che in questi anni ho conosciuto senza ombra di dubbio molti più generosi e più creativi che rancorosi.
(...)
Adesso sappiamo che avere a disposizione praticamente tutta l’informazione del mondo non ci rende più informati, né cittadini più responsabili, né esseri più empatici o realmente connessi. Anzi. Infantilizzare i formati per “raggiungere un pubblico più ampio” non fa che distribuire a più persone un’informazione in pillole che ha perduto tutti i suoi nutrienti, ma non crea affatto un maggior numero di persone informate. Ci sono passaggi dell’assorbimento dell’informazione che non si possono saltare, e sono personali, e lenti, non c’è niente da fare. Una delle semplificazioni drammatiche provocate dall’erosione della cultura è la letteralità, l’incapacità di digerire informazioni, il tracciare solo rapporti diretti di causa-effetto, come imputare il proprio impoverimento all’arrivo del migrante mentre questi, in realtà, è spinto a migrare proprio dalle conseguenze del nostro benessere a scapito del suo, soltanto che non ci va di indagare quali siano le nostre responsabilità indirette.
Leggere il mondo a questo livello, anche ammesso di impegnarsi in prima persona facendo volontariato e donazioni, non può che lasciare un pericoloso senso di impotenza. La politica nel senso più nobile è proprio quella cosa che dovrebbe portare – con lo studio e l’azione paziente, concertata e indiretta – a trasformazioni reali. È anche quella dimensione collettiva che dovrebbe metterci in grado di trascendere i nostri limiti individuali e i nostri corpi.
Ovviamente non credo che tutti i tumori si spieghino così, ma credo che ci siano persone il cui nucleo è incrinato praticamente fin dal principio, e che nonostante tutti gli sforzi, il coraggio, la buona volontà, non siano in grado di vivere davvero, e che uno dei modi in cui la vita, che vuole vivere, si apre un varco dentro di loro, potrebbe essere la malattia, e non una malattia qualunque: il cancro. È perché credo questo che mi indigno profondamente quando sento certe persone dire che siamo liberi, che la felicità si decide, che è una scelta morale. I maestri di allegrezza per i quali la tristezza è mancanza di gusto, la depressione segno di pigrizia, la malinconia un peccato. Sono daccordo, è un peccato, magari anche il peccato mortale, ma ci sono persone che nascono peccatrici, che nascono dannate, e che tutti gli sforzi, tutto il coraggio, tutta la buona volontà non sapranno strappare alla loro condizione. Tra coloro che hanno un nucleo incrinato e gli altri, è come tra poveri e ricchi, è come la lotta di classe, si sa che ci sono dei poveri che ce la fanno ma la maggior parte no, non ce la fa, e dire a un malinconico che la felicità è una decisione, è come dire a un affamato che può sempre mangiare brioche.
Emmanuel Carrère, Vite che non sono la mia
La miglior cosa da fare stamattina
per sollevare il mondo e la mia specie
è di stare sul gradino al sole
con la gatta in braccio a far le fusa.
Sparpagliare le fusa
per i campi la valle
la collina, fino alle cime alle costellazioni
ai mondi più lontani. Fare le fusa
con lei – la mia sovrana.
Imparare quel mantra che contiene
l’antica vibrazione musicale
forse la prima, quando dal buio immoto
per traboccante felicità
un gettito innescò la creazione.
Mariangela Gualtieri
And
if I’m gonna talk
I just wanna talk
please don’t
interrupt
just sit back and listen
‘cause
I can’t face the evening straight
you can offer me
escape
houses move and houses speak
if you take me there
you’ll get
relief
Lo
so
che tutto è già stato descritto:
l’amore, l’odio,
l’ira e il dolore.
Lo so.
Lo so
che ogni parola ha
infiniti padroni:
morti e vivi, sinceri e falsi.
Lo so.
Ma
so anche
che a nessun altro è dato di vivere me stesso.
Ecco
perché a nessuno concedo
di parlare al mio posto.
Rainer
Malkowski
Era in corso una fantastica guerra con la Polonia. Hitler da occidente, noi da oriente – e fine della Polonia. Naturalmente, per salvare le apparenze la chiamammo «liberazione dell’Ucraina Occidentale e della Bielorussia», e appendemmo manifesti dove una specie di servo della gleba tutto lacero abbracciava un valoroso liberatore dell’Armata Rossa. Ma così si usa. Chi invade è sempre il liberatore da qualcosa.
Anatolij Kuznecov, Babij Jar
Come
vorrei saper scrivere
una lettera ai boschi
a un fiume o
a una
qualità del cielo
non una lettera
di umani
rimpianti
o di sdegnati rimproveri
ma carta che sboccia
in sanguinose gemme
rischi di acqua alta
cielo
sereno o nuvole
senza vento come vorrei
una lingua di
aghi
di pino di resina e trote
fluttuanti una nuvolosa
lingua obbediente
ai più lievi cambiamenti.
Chandra Livia Candiani
Alla
riscossa stupidi che i fiumi sono in piena, potete
stare a galla
e non è colpa mia se esistono carnefici, se
esiste l'imbecillità
se le panchine sono piene di gente che sta
male
L’esercito
israeliano ha fatto sapere che non verrà aperta un’indagine sulla
morte di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa
mercoledì scorso mentre stava seguendo un’operazione dell’esercito
israeliano nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania
settentrionale.
In un comunicato pubblicato dal giornale
israeliano Jerusalem Post, la Polizia Militare – cioè l’organo
dell’esercito che si occupa di presunti reati compiuti dai militari
– spiega che la decisione si deve al fatto che per legge la morte
di un palestinese avvenuta nel corso di un’operazione militare non
richiede l’apertura di un’inchiesta a meno che non ci sia il
sospetto che sia stato compiuto un reato: e secondo l’esercito
israeliano in questo caso non ci sarebbero indizi di questo tipo.
An
Eskimo showed me a movie
He'd recently taken of you
The
poor man could hardly stop shivering
His lips and his fingers
were blue
I
suppose that he froze when the wind took your clothes
And I
guess he just never got warm
But you stand there so nice in
your blizzard of ice
Oh please, let me come into the storm
Quel che ci parla, mi pare, è sempre l'avvenimento, l'insolito, lo straordinario: articoli in prima pagina su cinque colonne, titoli a lettere cubitali. I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più i treni esistono; gli aerei hanno diritto di esistere solo quando sono dirottati; le macchine hanno come unico destino quello di schiantarsi contro i platani: cinquantadue week-end all'anno, cinquantadue bilanci: tanti sono i morti e tanto meglio per l'informazione se le cifre non fanno che aumentare! Dietro a un avvenimento ci deve essere uno scandalo, un'incrinatura, un pericolo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare, come se l'esemplare, il significativo, fosse sempre anormale: cataclismí naturali o sconvolgimento storici, conflitti sociali, scandali politici…
(…)
I
giornali parlano di tutto, tranne che del giornaliero. I giornali mi
annoiano, non mi insegnano niente; quello che raccontano non mi
riguarda, non mi interroga né tanto meno risponde alle domande che
mi pongo o che vorrei porre.
Quello che succede veramente,
quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che
succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il
quotidiano, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore
di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo
interrogarlo, in che modo descriverlo?
Interrogare l’abituale.
Ma per l’appunto ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci
interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza
pensarci, come se non contenesse né domande né risposte, come se
non trasportasse nessuna informazione. Non è neanche più un
condizionamento, è l’anestesia. Dormiamo la nostra vita di un
sonno senza sogni. Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro
corpo? Dov’è il nostro spazio?
Come parlare di queste “cose
comuni”, o meglio, come braccarle, come stanarle, come liberarle
dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un
senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è,
di quel che siamo.
(...)
Interrogare quello che ci sembra
talmente evidente da averne dimenticata l’origine. Ritrovare
qualcosa dello stupore che potevano provare Jules Verne o i suoi
lettori di fronte a un apparecchio capace di riprodurre e
trasportare i suoni. Perché è esistito, questo stupore, e con
esso, migliaia di altri, che ci hanno plasmato. Ciò che dobbiamo
interrogare, sono i mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere
a tavola, i nostri utensili, i nostri strumenti, i nostri orari, i
nostri ritmi. Interrogare ciò che sembra aver smesso per sempre di
stupirci. Viviamo, certo, respiriamo, certo; camminiamo, apriamo
porte, scendiamo scale, ci sediamo intorno a un tavolo per mangiare,
ci corichiamo in un letto per dormire. Come? Dove? Quando?
Perché?
Descrivete la vostra strada. Descrivetene un’altra.
Fate il confronto.
Fate l’inventario delle vostre tasche,
della vostra borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il
divenire di ogni oggetto che ne estraete.
Esaminate i vostri
cucchiaini.
Cosa c’è sotto la carta da parati?
Quanti
gesti occorrono per comporre un numero telefonico? Perché?
Perché
non si trovano le sigarette in drogheria? Perché no?
Poco
m’importa che queste domande siano frammentarie, appena indicative
di un metodo, al massimo di un progetto. Molto m’importa, invece,
che sembrino triviali e futili: è precisamente questo che le rende
altrettanto, se non addirittura più essenziali, di tante altre
attraverso le quali abbiamo tentato invano di afferrare la nostra
verità.
Georges Perec, L’infra-ordinario
Io
è tanti
e c’è chi crolla
e chi veglia
chi innaffia
i fiori
e chi beve troppo
chi dà sepoltura
e chi
ruggisce.
C’è un bambino estirpato
e una danzatrice
infaticabile
c’è massacro
e ci sono ossa
che
tornano luce.
Qualcuno spezzetta immagini
in un
mortaio,
una sarta cuce
un petto nuovo
ampio
che
accolga la notte,
il piombo.
Ci sono parole ossute
e
una via del senso
e una deriva,
c’è un postino sotto gli
alberi,
riposa
e c’è la ragione che conta
i
respiri
e non bastano
a fare tempio.
C’è il
macellaio
e c’è un bambino disossato
c’è il
coglitore
di belle nuvole
e lo scolaro
che nomina e
non tocca,
c’è il dormiente
e l’insonne che lo
sveglia
a scossoni
con furore
di belva
giovane
affamata di sembianze.
Ci sono tutti i tu
amati
e quelli spintonati via
ci sono i noi cuciti
di lacrime e
di labbra
riconoscenti. Ci sono
inchini a braccia
spalancate
e maledizioni bestemmiate
in faccia al mondo.
Ci
sono tutti, tutti quanti,
non in fila, e nemmeno
in
cerchio,
ma mescolati come farina e acqua
nel gesto
caldo
che fa il pane:
io è un abbraccio.
Chandra Livia Candiani
Tanti auguri che presto io ti torni a cercare
per rimetterti a posto, per venirti a salvare
che tu da sola non sai dirti che sei buona e brava
che tu da sola non sai dirti “sono buona e brava”
Più
vivo di così non sarai mai, te lo prometto.
Per la prima volta
vedrai i pori schiudersi
come musi di pesce e potrai
ascoltare
il mormorio del sangue nelle gallerie
e sentire
la luce scivolarti sulle cornee
come lo strascico di un abito;
per la prima volta
avvertirai la gravità pungerti
come una
spina nel calcagno
e per l’imperativo delle ali avrai male
alle scapole.
Ti prometto di renderti talmente vivo che
la
polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili,
che le
sopracciglie diventeranno due ferite fresche
e ti parrà che i
tuoi ricordi inizino
con la creazione del mondo.
Nina Cassian
Quando i miei pensieri sono ansiosi, inquieti e cattivi, vado in riva al mare, e il mare li annega e li manda via con i suoi grandi suoni larghi, li purifica con il suo rumore, e impone un ritmo su tutto ciò che in me è disorientato e confuso.
Rainer Maria Rilke
Io
conosco la mia vita e ho visto il mare
e ho visto l'amore da
poterne parlare
ma nelle notti di maggio non può bastare
la
voce di una canzone per lasciarsi andare
Hai bisogno di te
hai bisogno di questo tempo
in cui non si cucina
e non si prega
si sta.
Soli e improvvisati
abbandonati e senza senso
si sta, frastornati
e vuoti. Si sta.
E l’indomabile fiducia
accucciata fuori dalla porta
come un cane folle
di devozione
dorme sonni
che contengono alba.
Chandra Livia Candiani
A Napoli al ristorante ho ordinato “una braciola” e quando mi sono visto arrivare un involtino in umido ho chiesto al cameriere “ma io avevo chiesto una braciola...” e quello mi ha risposto “e questa cos’è?”. Comunque l’ho mangiata ed era una meraviglia, buona come poche altre cose che ho mangiato. A Napoli alla cassa del bar ho visto una scatola di vetro piena di cioccolatini a forma di bacio Perugina, incartati nella carta stagnola uno per uno, ho chiesto “ma sono Baci?” e la signora mi ha risposto “certo che sono baci, li facciamo proprio noi!” ed erano buonissimi.
A Napoli sono entrato in una tavola calda, saranno state le quattro del pomeriggio, volevo prendere qualcosa da riportare a mio figlio prima di ripartire, ma avevano finito tutto. Ho chiesto “avete qualcosa di pronto?” il marito della cuoca mi ha risposto “e che problema c’è, glielo prontiamo”. Poi è uscita la cuoca e mi ha detto “le faccio una frittata di maccheroni, qualche crocché e un po’ di pasta cresciuta, vabbuò?!”. Io le ho detto “ma quanto tempo ci vuole?” e lei ancora “e che fretta avete, vi sedete qui e vi fate compagnia con mio marito, vi bevete una birra intanto che aspettate. E dopo una mezz’ora io conoscevo tutta la storia della famiglia, fino a quell’infame di uno dei cugini, che San Gennaro gli faccia uscire uno sbocco di sangue. Marcio. In compenso la roba era buonissima e m’è sembrato che si facessero pagare per farmi un favore, perché pareva mi volessero regalare tutto.
A Napoli ho mangiato una cosa che si chiama “genovese” e l’ho digerita dopo tre giorni, cioè no, a digerire l’ho digerita subito, è che dopo tre giorni ancora mi pareva di averne qualche pezzetto sulla barba per come mi sentivo avvolto dal profumo. A Napoli mi hanno servito un caffè con la tazzina che mi scottava le labbra e non ho dovuto manco chiedere il bicchiere d’acqua, perché me l’hanno messo davanti direttamente insieme al caffè, però il barista non si fidava, aveva sentito l’accento romano e voleva vedere se l’acqua la bevevo prima o dopo il caffè, pareva che trattenesse il fiato per l’ansia. Quando ha visto che l’ho bevuta prima ha sorriso e io mi sono sentito come se avessi superato un esame all’università.
A Napoli sono andato a pranzo con due amici napoletani e hanno ordinato “pasta e patate” e poi momenti si scannano perché uno diceva “la provola ci vuole” e uno diceva “la provola non ci vuole” e io stavo zitto e temevo che alla fine mi menassero a me. Ma quando è arrivata la mia pizza con i friarielli hanno fatto pace e mi hanno fatto tutto un corso su come va preparata, in che punto del forno va messa perché si cuocia bene, come la ricotta debba fare da ripieno del cornicione, cose così. (La pizza era squisita e pure la loro pasta e patate, che per la cronaca la provola c’era).
A Napoli ho mangiato il casatiello e i ciccioli, una parmigiana di melanzane che quando ho chiesto “ma le melanzane come sono cotte?” mi volevano cacciare dal ristorante e farmi girare con un cartello attaccato al collo con scritto “ha chiesto come sono cotte le melanzane della parmigiana!”. Ho scoperto che le ciambelle con lo zucchero le chiamano “graffe” e guai pure quelle se ti azzardi a dire “ma sono cotte al forno?”. Ho scoperto che le sfogliatelle e le ricce sono due cose diverse, ma comunque se vuoi mangiare quelle più buone devi andare in un forno che sta a “vico Ferrovia” che se gli passi davanti non gli daresti una lira. Perché a Napoli quello che ti mangi conta più di dove lo mangi.
A Napoli ho capito che mangiare è una religione, ha i suoi riti e le sue cerimonie, è un atto sacro e mangiare da soli è triste, e se stai al tavolo da solo il cameriere si preoccupa e ti viene a chiedere dieci volte “come va? come state?” e dopo viene pure la padrona del ristorante e poi pure suo marito e ti mandano pure i figli, perché tante volte dovessi sentirti triste, non sia mai, come te lo gusti il mangiare?
E poi mi dite perché amo Napoli? Ma come fate voi, a non amarla. Come.
Marco Proietti Mancini
Il vero danno è causato da quei milioni che vogliono “sopravvivere”. Gli uomini onesti che vogliono solo essere lasciati in pace. Coloro che non vogliono che le loro piccole vite siano disturbate da qualcosa di più grande di loro. Quelli senza lati e senza cause. Coloro che non prenderanno la misura della propria forza, per paura di opporsi alla propria debolezza. Quelli a cui non piace fare ondate o nemici. Coloro per i quali libertà, onore, verità e principi sono solo letteratura. Chi vive in piccolo, si accoppia in piccolo, muore in piccolo. È l'approccio riduzionista alla vita: se lo mantieni piccolo lo manterrai sotto controllo. Se non fai alcun rumore, l'uomo nero non ti troverà. Ma è tutta un'illusione, perché anche loro muoiono, quelle persone che arrotolano il loro spirito in minuscole palline per essere al sicuro. Sicuro?! Da cosa? La vita è sempre al limite della morte; strade strette conducono allo stesso posto di ampi viali e una piccola candela si brucia come una torcia fiammeggiante. Scelgo il mio modo di bruciare
Sophia Magdalena Scholl, 9 maggio 1921
E
per quanto ti ho visto e per quanto ti ho sentito
tu sei una
giornata di riposo dove si comprano i giornali
E per quanto ti
sento e per quanto ti vedo
tu sei una gioia personale che
scroscia all'improvviso
E quando arrivi te e quando ti
avvicini
mi si allargano le spalle e mi spuntano le ali
A me non piace la definizione di “ateo” perché ad affibbiarmela sono coloro che credono in Dio e guardano il mondo esclusivamente dal loro punto di vista, dividendolo in quanti credono o non credono. In questa etichettatura c'è tutta la prepotenza del loro schema mentale, che fa della loro fede la discriminante tra gli uomini.
Umberto Galimberti
Un contadino mi dice, <non si può vivere solo a dieta vegetale, poiché essa non fornisce le sostanze per formare le ossa>. E pertanto egli dedica religiosamente una parte della sua giornata a fornire il proprio organismo delle materie prime necessarie alla formazione delle ossa; e mentre parla, cammina dietro ai suoi buoi, che, con le ossa fatte di sostanze vegetali, si trascinano lui e il suo pesante aratro, per quanti ostacoli abbiano davanti.
Henry David Thoreau, Walden, ovvero la vita nei boschi
Ad
ogni incontro con la primavera
non so star quieta – sorge il
desiderio
antico, un’ansia mista ad una attesa,
una
promessa di bellezza
ed
una gara di tutto il mio essere
con qualcosa che in essa si
nasconde.
Quando la primavera svanisce, v’è il rimorso
di
non averla guardata abbastanza.
Emily Dickinson
Ciao, non sono un panda
non
vivo allo zoo dentro una gabbia
non ho bisogno della tua
protezione
non voglio che mi nutri coi germogli
che mi
consideri una specie da salvare.
preferisco
che mi baci e che mi spogli
pattinare con te per la via
lattea
pitturare color luna le pareti
delle stanze del mio
bunker personale:
questo è quello che vogliamo noi poeti.
Francesca Genti
Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili, i collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch’essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d’essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. Non c’è mai fine al raccontare.
Cormac McCarthy, Oltre il confine
Noi
della seconda metà del XX secolo
che disintegriamo l’atomo
che
conquistiamo la luna
ci vergogniamo
dei teneri gesti
degli
sguardi amorevoli
dei caldi sorrisi
Quando
soffriamo
storciamo noncuranti la bocca
Quando arriva
l’amore
alziamo sprezzanti le spalle
Forti
cinici
con gli occhi ironicamente socchiusi
Soltanto
a tarda notte
con le tende ermeticamente tirate
ci mordiamo
le labbra dal dolore
moriamo d’amore
Małgorzata Hillar, da “20 Poesie”
Tutti credono che far niente sia una cosa facile, ma bisogna vedere questo niente come lo fanno. Socrate, Platone, Diogene, non facevano niente tutto il giorno, ma quel niente lo facevano in modo perfetto
Eduardo De Filippo