mercoledì 18 maggio 2022

L'ordinario


Quel che ci parla, mi pare, è sempre l'avvenimento, l'insolito, lo straordinario: articoli in prima pagina su cinque colonne, titoli a lettere cubitali. I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più i treni esistono; gli aerei hanno diritto di esistere solo quando sono dirottati; le macchine hanno come unico destino quello di schiantarsi contro i platani: cinquantadue week-end all'anno, cinquantadue bilanci: tanti sono i morti e tanto meglio per l'informazione se le cifre non fanno che aumentare! Dietro a un avvenimento ci deve essere uno scandalo, un'incrinatura, un pericolo, come se la vita dovesse rivelarsi soltanto attraverso lo spettacolare, come se l'esemplare, il significativo, fosse sempre anormale: cataclismí naturali o sconvolgimento storici, conflitti sociali, scandali politici…

(…)

I giornali parlano di tutto, tranne che del giornaliero. I giornali mi annoiano, non mi insegnano niente; quello che raccontano non mi riguarda, non mi interroga né tanto meno risponde alle domande che mi pongo o che vorrei porre.
Quello che succede veramente, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?
Interrogare l’abituale. Ma per l’appunto ci siamo abituati. Non lo interroghiamo, non ci interroga, non ci sembra costituire un problema, lo viviamo senza pensarci, come se non contenesse né domande né risposte, come se non trasportasse nessuna informazione. Non è neanche più un condizionamento, è l’anestesia. Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio?
Come parlare di queste “cose comuni”, o meglio, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo.
(...)
Interrogare quello che ci sembra talmente evidente da averne dimenticata l’origine. Ritrovare qualcosa dello stupore che potevano provare Jules Verne o i suoi lettori di fronte a un apparecchio capace di riprodurre e trasportare i suoni. Perché è esistito, questo stupore, e con esso, migliaia di altri, che ci hanno plasmato. Ciò che dobbiamo interrogare, sono i mattoni, il cemento, il vetro, le nostre maniere a tavola, i nostri utensili, i nostri strumenti, i nostri orari, i nostri ritmi. Interrogare ciò che sembra aver smesso per sempre di stupirci. Viviamo, certo, respiriamo, certo; camminiamo, apriamo porte, scendiamo scale, ci sediamo intorno a un tavolo per mangiare, ci corichiamo in un letto per dormire. Come? Dove? Quando? Perché?
Descrivete la vostra strada. Descrivetene un’altra. Fate il confronto.
Fate l’inventario delle vostre tasche, della vostra borsa. Interrogatevi sulla provenienza, l’uso e il divenire di ogni oggetto che ne estraete.
Esaminate i vostri cucchiaini.
Cosa c’è sotto la carta da parati?
Quanti gesti occorrono per comporre un numero telefonico? Perché?
Perché non si trovano le sigarette in drogheria? Perché no?
Poco m’importa che queste domande siano frammentarie, appena indicative di un metodo, al massimo di un progetto. Molto m’importa, invece, che sembrino triviali e futili: è precisamente questo che le rende altrettanto, se non addirittura più essenziali, di tante altre attraverso le quali abbiamo tentato invano di afferrare la nostra verità.

Georges Perec, L’infra-ordinario

 


 



 

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