Il mio lavoro è rivolto ai
percettivi più che agli opinionisti. Nel mondo dominato dall’attualità, nelle
macerie della modernità e dell’autismo corale, la paesologia propone un
semplice esercizio per disintossicarsi dalle opinioni, per dare attenzione alle
cose usuali, alle cose qualsiasi che nessuno guarda perché ovvie.
È un’esperienza per chi ama
guardare il mondo, piuttosto che giudicarlo: osservare i luoghi e i modi di
abitarli senza ansie di denunce o compiacimento.
Scrivere con la luce che
c’è fuori e con il buio che abbiamo dentro. Esercizi di etnologia soggettiva
per riattivare la percezione: l’idea guida è che dove si pensa che non c’è
niente in realtà c’è sempre qualcosa.
La paesologia va dietro le
meraviglie del mondo esterno: scoprire come ci si sente in un paese sapendo che
ogni paese è diverso da tutti gli altri, scoprire che il nostro corpo è un
estraneo, servire la poesia piuttosto che servirsene, sentire che la vita non è
tensione verso un fine trascendente, ma tempo che passa e ci chiama a
ritrovarci assieme ad altri gioiosamente, pur sapendo che ognuno è dentro un
suo esilio implacabile e ogni lietezza è provvisoria.
Io sono in mezzo al corpo,
in mezzo allo spavento e all’incanto di stare al mondo. Il corpo sta nella
luce, il corpo prende umori da fuori e ne produce di suoi, li prende dai
demoni, dalla polvere di stelle depositata sul fondo delle vene, li prende
dall’aria che abbiamo respirato dieci anni prima, dal bacio che non abbiamo
avuto.
Non posso confezionarmi in
un discorso preciso, sono a metà tra un comizio e gli occhi di una volpe
puntata dai fari, innocenza e intrigo, fare un passo senza sapere come fare il
successivo, furia e indugio, oltranza e vaghezza, infiammazione e fuga.
Adesso sono diventato
intimamente politico, dal punto della testa dove il pesciolino della morte si
dibatte nella sua rete fino al punto in cui il mondo pensa di darsi ordine,
fino al punto in cui il mondo ci riguarda il meno possibile. La virata è
avvenuta nel corpo, nel corpo si prepara tutto: la scrittura, l’amore e la
morte.
Il mio è un cercare casa,
sapere che non ne ho una, la casa la cerco in un abbraccio, in una frase. Io
sono singolo e solitario, non convergo se non per lampi, per apparizioni. Sono
a metà tra la poesia e l’etnologia, non potrei mai essere solo una cosa e
l’altra, sono l’intreccio di intimità e distanza, incontrare un luogo e una
persona come cose che possono venirmi incontro e che possono lasciarmi: ancora
il non trovare casa.
Esco per il sole, per
vedere la morte che confeziona il suo vestito sui corpi degli anziani, vedere
le panchine, le merendine dentro i bar, la scena del mondo di adesso, quelli
che nel bar raschiano i numeri per diventare ricchi.
Tengo la felicità in bocca
e la morte vicina all’orecchio.
Accolgo quello che accade
in strada, alla televisione, al gabinetto, il colpo di tosse, il fazzoletto in
tasca, il sesso, i cani, la luna, e da poco perfino il mare.
Sono sempre intreccio, mai
un filo solo.
Franco Arminio , Geografia commossa dell’Italia interna
Concedetevi una vacanza
intorno a un filo d’erba,
dove non c’è il troppo di ogni cosa,
dove il poco ancora ti festeggia
con il pane e la luce,
con la muta lussuria di una rosa.