sabato 11 gennaio 2014

Enter the Earth


Il mio lavoro è rivolto ai percettivi più che agli opinionisti. Nel mondo dominato dall’attualità, nelle macerie della modernità e dell’autismo corale, la paesologia propone un semplice esercizio per disintossicarsi dalle opinioni, per dare attenzione alle cose usuali, alle cose qualsiasi che nessuno guarda perché ovvie.
È un’esperienza per chi ama guardare il mondo, piuttosto che giudicarlo: osservare i luoghi e i modi di abitarli senza ansie di denunce o compiacimento.
Scrivere con la luce che c’è fuori e con il buio che abbiamo dentro. Esercizi di etnologia soggettiva per riattivare la percezione: l’idea guida è che dove si pensa che non c’è niente in realtà c’è sempre qualcosa.
La paesologia va dietro le meraviglie del mondo esterno: scoprire come ci si sente in un paese sapendo che ogni paese è diverso da tutti gli altri, scoprire che il nostro corpo è un estraneo, servire la poesia piuttosto che servirsene, sentire che la vita non è tensione verso un fine trascendente, ma tempo che passa e ci chiama a ritrovarci assieme ad altri gioiosamente, pur sapendo che ognuno è dentro un suo esilio implacabile e ogni lietezza è provvisoria.
Io sono in mezzo al corpo, in mezzo allo spavento e all’incanto di stare al mondo. Il corpo sta nella luce, il corpo prende umori da fuori e ne produce di suoi, li prende dai demoni, dalla polvere di stelle depositata sul fondo delle vene, li prende dall’aria che abbiamo respirato dieci anni prima, dal bacio che non abbiamo avuto.
Non posso confezionarmi in un discorso preciso, sono a metà tra un comizio e gli occhi di una volpe puntata dai fari, innocenza e intrigo, fare un passo senza sapere come fare il successivo, furia e indugio, oltranza e vaghezza, infiammazione e fuga.
Adesso sono diventato intimamente politico, dal punto della testa dove il pesciolino della morte si dibatte nella sua rete fino al punto in cui il mondo pensa di darsi ordine, fino al punto in cui il mondo ci riguarda il meno possibile. La virata è avvenuta nel corpo, nel corpo si prepara tutto: la scrittura, l’amore e la morte.
Il mio è un cercare casa, sapere che non ne ho una, la casa la cerco in un abbraccio, in una frase. Io sono singolo e solitario, non convergo se non per lampi, per apparizioni. Sono a metà tra la poesia e l’etnologia, non potrei mai essere solo una cosa e l’altra, sono l’intreccio di intimità e distanza, incontrare un luogo e una persona come cose che possono venirmi incontro e che possono lasciarmi: ancora il non trovare casa.
Esco per il sole, per vedere la morte che confeziona il suo vestito sui corpi degli anziani, vedere le panchine, le merendine dentro i bar, la scena del mondo di adesso, quelli che nel bar raschiano i numeri per diventare ricchi.
Tengo la felicità in bocca e la morte vicina all’orecchio.
Accolgo quello che accade in strada, alla televisione, al gabinetto, il colpo di tosse, il fazzoletto in tasca, il sesso, i cani, la luna, e da poco perfino il mare.
Sono sempre intreccio, mai un filo solo.

Franco Arminio , Geografia commossa dell’Italia interna 


Concedetevi una vacanza
intorno a un filo d’erba,
dove non c’è il troppo di ogni cosa,
dove il poco ancora ti festeggia
con il pane e la luce,
con la muta lussuria di una rosa.






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