Antonio Tabucchi in uno dei suoi ultimi libri, “Viaggi e altri viaggi”, dà una spiegazione cristallina della saudade: sei in un posto bellissimo, magari proprio in rua da Saudade, sopra la cattedrale di Lisbona, con lo spettacolare panorama del Tago di fronte a te. All'improvviso hai una stretta di nostalgia perché sai che questo spettacolo ti mancherà una volta che sarai a casa tua, lontano dalla bellezza di questo posto e di questo momento. Ecco cos'è la saudade: il sentimento di perdita, nostalgia, struggimento al futuro per qualcosa che hai e di cui non riesci a godere appieno perché sai che prima o poi la perderai.
Questa parola, termine
chiave di tutta la lingua e la cultura portoghese, impossibile da tradurre in
un idioma diverso, riflette uno stato d’animo, un sentimento che appartiene al
popolo lusitano, che lo definisce e lo imprigiona allo stesso tempo.
Tradizionalmente, la saudade è
associata alla malinconia causata dal ricordo di un bene del quale si è
privati; al dolore provocato dall’assenza di qualcuno o dell’oggetto amato; al
ricordo dolce e simultaneamente triste di una persona a noi cara; alla
nostalgia, o come suggerisce Tabucchi, al “desìo” dantesco, «che nello strazio
reca una tenera dolcezza». Qualcosa di intimamente legato al passato, dunque.
Ma non solo, la saudade è
qualcosa di più complesso. Come disse Manoel de Oliveira, «significa che
l’armonia si realizza con l’aiuto dei sentimenti contrari». (…) viene voglia di
tradurla con “speranza”. Una speranza metafisica, filosofica, religiosa nel
senso più ampio. Come una speranza dell’al di là, di un’altra vita, come
l’evocava Nietzsche, la speranza in un futuro che non conosciamo. Qualcosa che
sta tra la disperazione che si prova nel mondo e la terribile voglia di vivere»
(http://www.uzak.it/)
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