giovedì 26 marzo 2015

Memoria




Quando si comincia a dimenticare le cose – non mi riferisco all’Alzheimer, ma solo alle prevedibili conseguenze dell’età – si può reagire in vari modi. Ci si può mettere d’impegno e cercare di costringere la memoria a cacciare fuori il nome di quel conoscente, di quel fiore, quella stazione ferroviaria, quell’astronauta… Oppure si può ammettere la propria défaillance e prendere misure pratiche al riguardo, utilizzando testi di consultazione e internet. O piú semplicemente, si può lasciar perdere – infischiarsene di ricordare – e scoprire, a volte, che l’elemento smarrito riaffiora magari a distanza di un’ora o di un giorno, spesso nel corso di quelle interminabili notti insonni che la vecchiaia infligge. È una cosa che impariamo tutti, tutti quelli di noi che dimenticano, intendo.
Ma impariamo anche qualcos’altro, e cioè che al nostro cervello non piace che gli si attribuisca un ruolo fisso. Proprio quando crediamo che sia tutta una questione di decrescita, di sottrazioni e divisioni, ecco che la nostra mente, la nostra memoria, possono sorprenderci. Quasi a dirci: Non pensare di poter fare conto su un rassicurante processo di graduale declino – la vita è molto piú complicata di cosí. E allora il cervello si mette a lanciarti addosso brandelli di cose, perfino a sbrogliare certi ben noti grovigli della memoria. E, con mio grande sgomento, è proprio questo che mi stava capitando.


Julian Barnes, Il senso di una fine  




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