Perché essere antispecista è così emozionalmente estenuante.
Immagina
di essere un antirazzista in un mondo dominato dalla supremazia
bianca, una femminista in un mondo di MRA, un omosessuale in un mondo
di omofobi. Ovvero di vivere in una società che non soltanto
collude, più o meno consapevolmente, con un sistema di potere che si
impossessa dei corpi rendendoli merci, ma che addirittura se ne fa
vanto, ergendo la propria iniquità a motivo di orgoglio. Immagina di
voler bene a persone quasi sempre meravigliose, tranne quando
picchiano un non bianco, una donna, un disabile. E lo fanno con il
benestare della società tutta, che lo inscrive nell’ordine
naturale delle cose. Immagina di viaggiare, e mentre il tuo compagno
di viaggio ammira le vigne e le dolci colline digradanti nella
vallata, tu vedi solo grigi capannoni senza finestre dove migliaia di
vite languiscono e muoiono. O camion pieni di occhi terrorizzati, che
quando incroci quegli sguardi capisci l’orrore.
In
fondo pensi che non è difficile arrivarci, non serve una laurea in
metafisica del potere per capire che non c’è nulla di naturale in
questo, anzi: non siamo indiani d’America che ergono totem dalle
sembianze animali e ringraziano gli animali uccisi, o inuit in
perenne simbiosi dalla nascita alla morte con le renne… ma siamo
proprio l’opposto, primati drogati e schiavi del potere, che nel
corso dei secoli null’altro hanno fatto se non tracciare solchi
sempre più profondi dall’altro da sé: a partire proprio
dall’animale, concetto creato ad arte che rappresenta il paradigma
stesso dell’oppressione, la vita reificata e trasformata in risorsa
a perenne disposizione. E blateriamo della nostra eccezionalità,
quando l’unica specialità che abbiamo coltivato con cura è
approfittare dell’altrui debolezza e vulnerabilità, per il nostro
tornaconto.
Ogni
giorno vengono confezionate ad arte guerre tra poveri, guerre tra
oppressi, tanto utili a camuffare l’origine delle ingiustizie. E
nel vile tranello ci cadiamo tutti, anche chi è vittima o chi è
solidale nel lottare contro l’oppressione, e cominciano le
olimpiadi: ogni esistenza indegna si posiziona ai blocchi di
partenza, chi vincerà? La donna maltrattata, il migrante
incarcerato, il disabile invisibilizzato, l’omosessuale bruciato
vivo, l’animale sgozzato, ecc.ecc.ecc.? Sugli spalti, i soliti noti
si godono lo spettacolo, intoccabili e compiaciuti.
Ma
quando cerchi la solidarietà tra oppressi, raramente riesci a
scardinare quella stessa dinamica che ti ha piazzato a correre a
perdifiato su quella pista che è la tua vita di merda, o la vita di
merda che ad altri è stata destinata… perché in fondo, simpatie ed
empatie a parte, pare proprio che alla maggior parte di noi ciò che
sta più a cuore sia salire sul podio e trovare la via di uscita
dalla propria oppressione: e se è difficile, ma non impossibile,
concepire un’alleanza tra “umani” ecco che questa stessa
alleanza si basa, quasi sempre, sulla comune distanza dall’animale.
Distanza ideologica e miope, poiché quando diventiamo spendibili,
siamo già, nei fatti, animalizzati: e dunque fintantoché esisterà
l’Animale come vivente appropriabile, nessuno sarà realmente al
sicuro nel proprio corpo e nella propria vita.
Eppure,
per quanto si tenti, quantomeno nelle intenzioni e nei proclami, di
creare alleanze tra differenti soggettività oppresse, è quasi
impossibile includere l’animale nel conteggio delle vittime, quasi
che fosse impensabile, per l’umano, vivere senza dominare, senza
opprimere.
Essere
antispecista è emotivamente estenuante perché, spesso, proprio le
persone che ami, anche quelle che lottano al tuo fianco, sono le
stesse che non capiscono che invitarti ad una grigliata “tanto ci
sono le verdure” non è una cosa bella. Tu rifletti, giustifichi,
razionalizzi, ti dici che è normale, la società tutta è specista,
ci vuole tempo, ci vuole pazienza, ma che pazienza si può avere di
fronte alla puzza di carne bruciata?
Allora
ti viene naturale cercare conforto in chi è più simile a te, ma poi
scopri che forse anche questa volta ti eri sbagliata: perché mentre
la maggior parte del movimento scrutina minuziosamente le etichette a
caccia dello 0,1% di lana o di tracce di uova e latte, là fuori le
vite massacrate raggiungono cifre a 10 zeri: e allora ti chiedi se
davvero ne valga la pena, se davvero abbia senso tutto questo dolore
e questa impotenza, se in fondo non sarebbe più facile chiudere la
porta di casa, rifugiarsi nelle piccole cose, illudersi che vada
tutto bene, perché se ne ha la possibilità e raramente si comprende
l’enormità di questo privilegio, il privilegio dell’indifferenza.
Ma
come puoi dimenticare quegli occhi una volta che li hai incrociati? E
non solo quelli disperati, ma anche quelli felici che per un caso
fortuito hanno riassaporato la libertà. Le emozioni che ti
trasmettono le conosci bene, perché sei un essere sensibile tra
esseri sensibili, e sai che non esiste nulla di più prezioso della
libertà, della possibilità di autodeterminare, nei limiti posti da
un’esistenza finita, la propria vita. E sai che gli altri animali
la cercano incessantemente, quanto te, ed è quello di cui hanno
bisogno. Non di protettori, di rifugi, di custodi, ma di libertà:
solo nella libertà esiste l’incontro, l’elezione, l’affinità.
Nella libertà di essere e di esistere, il privilegio più importante
e rischioso di tutti.
Anche
se la violenza è parte ineludibile di questo mondo, così come la
sofferenza e la morte, non lo è il dominio. Il dominio è
un’invenzione umana, il dominio è l’annichilimento della vita,
il dominio è l’inferno sulla terra. Noi vogliamo rendere visibili
i meccanismi del dominio, vogliamo sfilarci da essi il più
possibile, anche quando non li agiamo direttamente ma ne siamo in
ogni caso collusi. Per questo non possiamo gioire alle grigliate, e
non siamo capaci di sorridere mentre coi denti staccate brandelli di
muscoli dalle ossa: e finché la carne del mondo non smetterà di
bruciare sugli altari del potere, non avremo altro destino che
continuare a lottare.
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