mercoledì 28 novembre 2018

Versi




Ma i versi significano poco, se scritti presto. Uno dovrebbe aspettare, raccogliere saggezza e dolcezza per tutta una vita, una vita lunga, se possibile, per riuscire forse, proprio alla fine, a scrivere dieci righe buone. I versi non sono, come si crede, sentimenti (i quali si hanno abbastanza presto), sono esperienze. Perché un solo verso possa nascere, bisogna avere visto molte città, uomini, cose, conoscere gli animali, sentire come volano gli uccelli, sapere i movimenti con cui i piccoli fiori s’aprono il mattino. Bisogna poter ripensare a cammini in regioni sconosciute, a incontri inattesi, a partenze che guardavamo a lungo avvicinarsi, a giorni dell’infanzia ancora inesplicati, ai genitori che dovevamo amareggiare quando ci portavano una gioia che non capivamo (era una gioia per un altro), a malattie infantili, che cominciavano in modo così singolare,con mutamenti tanto gravi e profondi, a giorni trascorsi in stanze quiete e raccolte, a mattini in riva al mare, al mare in sé, a dei mari, a notti di viaggio che stormivano altissime e volavano via con tutte le stelle… e non è ancora abbastanza. Bisogna avere ricordi di molte notti d’amore, ognuna diversa dall’altra, di grida di donne con le doglie e di bianche, lievi puerpere addormentate, che si chiudono. Ma occorre anche essere stati vicini a moribondi, essere stati seduti accanto a dei morti nella stanza con la finestra aperta e i rumori che salgono a folate. E non basta neppure avere ricordi. Bisogna saperli dimenticare, quando sono molti, e attendere con grande pazienza che tornino. Perché i ricordi, in sé, non sono tutto. Solo quando diventano in noi sangue, sguardo, gesto, anonimi e indistinguibili da noi, soltanto allora può succedere che in un’ora rarissima da essi si stacchi e s’innalzi la prima parola di un verso.
 
Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge










 

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