Si
dice che l'insegnamento del Buddha sia un uccello: un'ala è la
saggezza, l'altra è la compassione.
Compassione è una parola chiave dell'arte di risvegliarsi, apre le porte del cuore, lo dissoda, lo innaffia e lo invita a fiorire.
Come tutte le parole incrostate di idealizzazioni va spolverata, lavata a fondo, rimessa al sole del mondo perché si asciughi bene dalle lacrime della commiserazione, dell'attenzione esclusiva al dolore della condizione umana.
In sanscrito e in pali si chiama karuna e alla lettera significa "provare un tremito del cuore in risposta alla sofferenza di un essere". Ma chi non prova alcun tremito per la propria sofferenza, chi non si accoglie, non si custodisce quando soffre, è impossibile che possa sentire vera compassione per la sofferenza di un altro. Altrimenti, è solo una virtù artefatta interpretata con esaltazione o con sforzo che sfocia in un violento tagliar fuori se stessi e imporsi pietosi e invadenti all' altro, senza il sacro rispetto per i confini, le differenze, i percorsi: è senza corpo. Si può diventare molto presenti quando un altro soffre, pronti, efficienti, assidui e poi abbandonarlo appena sta bene, invidiarlo o ignorarlo se è felice.
Sento che è indispensabile affiancare alla pratica della compassione quella di mudita, la gioia per la gioia dell'altro, molto poco nota e di cui avremmo così tanto bisogno per curare le nascostissime ferite dell'invidia e della gelosia, che hanno invece tanto bisogno di venire alla luce, di essere viste e accolte per non essere agite mascherate da tutt'altro.
Ogni pratica che riguardi il sentire e i sentimenti è rischiosa, perché può indurci a falsare quello che sentiamo e a mascherarlo con la sua complementare virtù. Se si chiamano "pratiche" significa che partiamo da un non-sapere, un non essere già buoni, giusti, veri e che ci vuole un apprendistato per risvegliare in noi qualità nascoste e originali. Si parte da dove siamo -onestamente- scoprendo i nostri angoli bui: l'indifferenza, la crudeltà, l'onnipotenza, il voler far passare all'altro il male al più presto, il togliergli la dignità della ferita e la possibilità di trovare i suoi personali strumenti di risposta giusta e di guarigione.
Compassione è una parola chiave dell'arte di risvegliarsi, apre le porte del cuore, lo dissoda, lo innaffia e lo invita a fiorire.
Come tutte le parole incrostate di idealizzazioni va spolverata, lavata a fondo, rimessa al sole del mondo perché si asciughi bene dalle lacrime della commiserazione, dell'attenzione esclusiva al dolore della condizione umana.
In sanscrito e in pali si chiama karuna e alla lettera significa "provare un tremito del cuore in risposta alla sofferenza di un essere". Ma chi non prova alcun tremito per la propria sofferenza, chi non si accoglie, non si custodisce quando soffre, è impossibile che possa sentire vera compassione per la sofferenza di un altro. Altrimenti, è solo una virtù artefatta interpretata con esaltazione o con sforzo che sfocia in un violento tagliar fuori se stessi e imporsi pietosi e invadenti all' altro, senza il sacro rispetto per i confini, le differenze, i percorsi: è senza corpo. Si può diventare molto presenti quando un altro soffre, pronti, efficienti, assidui e poi abbandonarlo appena sta bene, invidiarlo o ignorarlo se è felice.
Sento che è indispensabile affiancare alla pratica della compassione quella di mudita, la gioia per la gioia dell'altro, molto poco nota e di cui avremmo così tanto bisogno per curare le nascostissime ferite dell'invidia e della gelosia, che hanno invece tanto bisogno di venire alla luce, di essere viste e accolte per non essere agite mascherate da tutt'altro.
Ogni pratica che riguardi il sentire e i sentimenti è rischiosa, perché può indurci a falsare quello che sentiamo e a mascherarlo con la sua complementare virtù. Se si chiamano "pratiche" significa che partiamo da un non-sapere, un non essere già buoni, giusti, veri e che ci vuole un apprendistato per risvegliare in noi qualità nascoste e originali. Si parte da dove siamo -onestamente- scoprendo i nostri angoli bui: l'indifferenza, la crudeltà, l'onnipotenza, il voler far passare all'altro il male al più presto, il togliergli la dignità della ferita e la possibilità di trovare i suoi personali strumenti di risposta giusta e di guarigione.
Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva (L'arte della meditazione)
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