mercoledì 3 novembre 2021

Indaco

 

Mentre cammino sulla West Cliff Drive, un uomo corre
verso di me spingendo uno di quei passeggini da jogging
con ammortizzatori che permettono al bambino di continuare a dormire,
in qualsiasi posizione. Posso appena intravedere
le sue palpebre quasi traslucide. Il padre è giovane
una giungla di indaco e corniola tatuata
da nocche a mascelle, rigogliosi rampicanti e fioriture,
santi e simboli. Spesse spine di legno perforano
i suoi lobi e gli occhiali da sole confermano
lo splendore che lo circonda. Sono così gelosa.
Come spesso mi accade. È una specie di ossessione.
Vorrei che fosse stato il padre di mio figlio.
Vorrei aver sposato un uomo che lo voleva così tanto
da segnarlo come si fa con un libro, sottolineando,
evidenziando, scrivendo a margine, che ero
qui.
Non come il mio ex marito morto, sempre
in combattimento contro la carne, lui che rimaneva seduto per ore
sul suo zafu recitando
om e subito dopo uscendo
si rompeva una mano dando un pugno all’automobile.
Immagino che quando quest’uomo al galoppo tornerà a casa
vorrà fare sesso con sua moglie,
che è rimasta a letto fino a tardi, e poi mangerà
costolette alla brace e lascerà che il bimbo rosicchi un osso
mentre egli beve una birra scura. Non riesco a smettere
di desiderare che mia figlia avesse avuto un padre così.
Non riesco a smettere di desiderare di aver avuto quella vita. Oh, lo so
è un miracolo avere una vita. Qualsiasi vita.
I miei genitori hanno impiegato otto anni per concepirmi.
Prima ci fu la guerra e poi dovettero aspettare.
E le ossa di mia madre erano così strette che fu necessario un cesareo
mentre io fui trasportata in aereo. Che qualcuno sia nato,
ogni precario successo da sperma e ovulo
a zigote, embrione, neonato, è una meraviglia.
Ed eccomi qui, viva.
Quasi settant’anni e nulla che mi abbia ancora ucciso.
Non l’auto che ho disintegrato ignorando uno stop
o lo Spirocheta che mi ha fottuto il sangue.
Non l’albero caduto nella foresta esattamente
nel punto in cui mi trovavo – il mio migliore amico mi diede uno spintone
all’indietro così caddi sul sedere quando si schiantò.
Sono viva.
E ho dato alla luce una bambina.
E poi non ha avuto un padre che volesse portarla
sulle sue spalle. E così tante altre cose che non ha avuto.
Ho pianto gran parte della mia vita per questo.
E ora c’è tutto ciò di cui non possiamo parlare.
Ci amiamo — ma non possiamo occuparci
troppo l’una dell’altra.
Eppure c’era lei sola, quando chiesi di uccidermi
nel caso in cui non avessi più avuto facoltà mentali —
stavamo andando a Ross,
a comprare abiti. È qualcosa
che le piace e sembrano tutti incantevoli su di lei —
lei fu l’unica
a non esitare o rifiutare
tentennare o trasalire.
Mentre attraversavamo il parcheggio
ha detto, OK, ma quand’è il limite massimo?
Questo è ciò che ho bisogno di sapere. 

Ellen Bass, Indigo

 

As I’m walking on West Cliff Drive, a man runs
toward me pushing one of those jogging strollers
with shock absorbers so the baby can keep sleeping,
which this baby is. I can just get a glimpse
of its almost translucent eyelids. The father is young,
a jungle of indigo and carnelian tattooed
from knuckle to jaw, leafy vines and blossoms,
saints and symbols. Thick wooden plugs pierce
his lobes and his sunglasses testify
to the radiance haloed around him. I’m so jealous.
As I often am. It’s a kind of obsession.
I want him to have been my child’s father.
I want to have married a man who wanted
to be in a body, who wanted to live in it so much
that he marked it up like a book, underlining,
highlighting, writing in the margins, I was
here.
Not like my dead ex-husband, who was always
fighting against the flesh, who sat for hours
on his zafu chanting
om and then went out
and broke his hand punching the car.
I imagine when this galloping man gets home
he’s going to want to have sex with his wife,
who slept in late, and then he’ll eat
barbecued ribs and let the baby teethe on a bone
while he drinks a cold dark beer. I can’t stop
wishing my daughter had had a father like that.
I can’t stop wishing I’d had that life. Oh, I know
it’s a miracle to have a life. Any life at all.
It took eight years for my parents to conceive me.
First there was the war and then just waiting.
And my mother’s bones so narrow, she had to be slit
and I airlifted. That anyone is born,
each precarious success from sperm and egg
to zygote, embryo, infant, is a wonder.
And here I am, alive.
Almost seventy years and nothing has killed me.
Not the car I totalled running a stop sign
or the spirochete that screwed into my blood.
Not the tree that fell in the forest exactly
where I was standing—my best friend shoving me
backward so I fell on my ass as it crashed.
I’m alive.
And I gave birth to a child.
So she didn’t get a father who’d sling her
onto his shoulder. And so much else she didn’t get.
I’ve cried most of my life over that.
And now there’s everything that we can’t talk about.
We love—but cannot take
too much of each other.
Yet she is the one who, when I asked her to kill me
if I no longer had my mind—
we were on our way into Ross,
shopping for dresses. That’s something
she likes and they all look adorable on her—
she’s the only one
who didn’t hesitate or refuse
or waver or flinch.
As we strode across the parking lot
she said, O.K., but when’s the cutoff?
That’s what I need to know

 





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