Mentre
cammino sulla West Cliff Drive, un uomo corre
verso di me
spingendo uno di quei passeggini da jogging
con ammortizzatori
che permettono al bambino di continuare a dormire,
in qualsiasi
posizione. Posso appena intravedere
le sue palpebre quasi
traslucide. Il padre è giovane
una giungla di indaco e corniola
tatuata
da nocche a mascelle, rigogliosi rampicanti e
fioriture,
santi e simboli. Spesse spine di legno perforano
i
suoi lobi e gli occhiali da sole confermano
lo splendore che lo
circonda. Sono così gelosa.
Come spesso mi accade. È una
specie di ossessione.
Vorrei che fosse stato il padre di mio
figlio.
Vorrei aver sposato un uomo che lo voleva così tanto
da
segnarlo come si fa con un libro, sottolineando,
evidenziando,
scrivendo a margine, che ero qui.
Non
come il mio ex marito morto, sempre
in combattimento contro la
carne, lui che rimaneva seduto per ore
sul suo zafu recitando om
e subito dopo uscendo
si rompeva una mano dando un pugno
all’automobile.
Immagino che quando quest’uomo al galoppo
tornerà a casa
vorrà fare sesso con sua moglie,
che è
rimasta a letto fino a tardi, e poi mangerà
costolette alla
brace e lascerà che il bimbo rosicchi un osso
mentre egli beve
una birra scura. Non riesco a smettere
di desiderare che mia
figlia avesse avuto un padre così.
Non riesco a smettere di
desiderare di aver avuto quella vita. Oh, lo so
è un miracolo
avere una vita. Qualsiasi vita.
I miei genitori hanno impiegato
otto anni per concepirmi.
Prima ci fu la guerra e poi dovettero
aspettare.
E le ossa di mia madre erano così strette che fu
necessario un cesareo
mentre io fui trasportata in aereo. Che
qualcuno sia nato,
ogni precario successo da sperma e ovulo
a
zigote, embrione, neonato, è una meraviglia.
Ed eccomi qui,
viva.
Quasi settant’anni e nulla che mi abbia ancora
ucciso.
Non l’auto che ho disintegrato ignorando uno stop
o
lo Spirocheta che mi ha fottuto il sangue.
Non l’albero caduto
nella foresta esattamente
nel punto in cui mi trovavo – il
mio migliore amico mi diede uno spintone
all’indietro così
caddi sul sedere quando si schiantò.
Sono viva.
E ho dato
alla luce una bambina.
E poi non ha avuto un padre che volesse
portarla
sulle sue spalle. E così tante altre cose che non ha
avuto.
Ho pianto gran parte della mia vita per questo.
E
ora c’è tutto ciò di cui non possiamo parlare.
Ci amiamo —
ma non possiamo occuparci
troppo l’una dell’altra.
Eppure
c’era lei sola, quando chiesi di uccidermi
nel caso in cui non
avessi più avuto facoltà mentali —
stavamo andando a Ross,
a
comprare abiti. È qualcosa
che le piace e sembrano tutti
incantevoli su di lei —
lei fu l’unica
a non esitare o
rifiutare
tentennare o trasalire.
Mentre attraversavamo il
parcheggio
ha detto, OK, ma quand’è il limite massimo?
Questo
è ciò che ho bisogno di sapere.
Ellen Bass, Indigo
As
I’m walking on West Cliff Drive, a man runs
toward me pushing
one of those jogging strollers
with shock absorbers so the baby
can keep sleeping,
which this baby is. I can just get a
glimpse
of its almost translucent eyelids. The father is
young,
a jungle of indigo and carnelian tattooed
from
knuckle to jaw, leafy vines and blossoms,
saints and symbols.
Thick wooden plugs pierce
his lobes and his sunglasses
testify
to the radiance haloed around him. I’m so jealous.
As
I often am. It’s a kind of obsession.
I want him to have been
my child’s father.
I want to have married a man who wanted
to
be in a body, who wanted to live in it so much
that he marked it
up like a book, underlining,
highlighting, writing in the
margins, I was here.
Not
like my dead ex-husband, who was always
fighting against the
flesh, who sat for hours
on his zafu chanting om
and then went out
and broke his hand punching the car.
I
imagine when this galloping man gets home
he’s going to want
to have sex with his wife,
who slept in late, and then he’ll
eat
barbecued ribs and let the baby teethe on a bone
while
he drinks a cold dark beer. I can’t stop
wishing my daughter
had had a father like that.
I can’t stop wishing I’d had
that life. Oh, I know
it’s a miracle to have a life. Any life
at all.
It took eight years for my parents to conceive me.
First
there was the war and then just waiting.
And my mother’s bones
so narrow, she had to be slit
and I airlifted. That anyone is
born,
each precarious success from sperm and egg
to zygote,
embryo, infant, is a wonder.
And here I am, alive.
Almost
seventy years and nothing has killed me.
Not the car I totalled
running a stop sign
or the spirochete that screwed into my
blood.
Not the tree that fell in the forest exactly
where I
was standing—my best friend shoving me
backward so I fell on
my ass as it crashed.
I’m alive.
And I gave birth to a
child.
So she didn’t get a father who’d sling her
onto
his shoulder. And so much else she didn’t get.
I’ve cried
most of my life over that.
And now there’s everything that we
can’t talk about.
We love—but cannot take
too much of
each other.
Yet she is the one who, when I asked her to kill
me
if I no longer had my mind—
we were on our way into
Ross,
shopping for dresses. That’s something
she likes
and they all look adorable on her—
she’s the only one
who
didn’t hesitate or refuse
or waver or flinch.
As we
strode across the parking lot
she said, O.K., but when’s the
cutoff?
That’s what I need to know
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