Il
papà era sul lato della casa a reggere una porta per l’affittuario
quando udì la voce della mamma levarsi acuta fra le urla del
bambino. Gli fu facile accorrere, la veranda nel retro dava
direttamente sulla cucina, e prima che la doppia porta si richiudesse
di scatto alle sue spalle il papà aveva abbracciato l’intera scena
con lo sguardo, la pentola rovesciata sulle mattonelle davanti alla
stufa e il getto azzurro del fornello a gas e la pozza d’acqua
ancora fumante che si diramava in ogni direzione sul pavimento, il
frugoletto infagottato nel pannolino in piedi rigido col vapore che
esalava dai capelli e dal petto e dalle spalle porpora e gli occhi
strabuzzati e la bocca spalancata che sembrava come separata dai
suoni che emetteva, la mamma un ginocchio in terra che lo tamponava
inutilmente con lo strofinaccio, coprendo con le sue le urla del
bambino, isterica al punto da essere quasi impietrita. Il suo
ginocchio e il piccolo tenero piede scalzo erano ancora immersi nella
pozza fumante, e per prima cosa il papà prese il piccino per le
ascelle, lo sollevò da terra e lo portò al lavello, dove buttati
fuori i piatti aprì il rubinetto per far scorrere l’acqua fredda
del pozzo sui piedi del bambino mentre ne raccoglieva altra nel cavo
della mano e la versava o la gettava sulla testa sulle spalle e sul
petto, non volendo innanzitutto più vedere il vapore esalare dal
corpo, la mamma che da sopra la sua spalla invocava il Signore finché
lui non la mandò a prendere degli asciugamani e a vedere se avevano
della garza, il papà che si muoveva con efficienza, la sua mente
maschile concentrata unicamente sullo scopo da raggiungere, ancora
inconsapevole che lui si muoveva con disinvoltura o che aveva smesso
di sentire le urla altissime perché sentirle lo avrebbe pietrificato
rendendo impossibile fare quel che andava fatto per soccorrere la sua
creatura, le cui urla avevano assunto la regolarità del respiro e si
protraevano da tanto di quel tempo da essere diventate una presenza
nella cucina, un’altra cosa da rimuovere al più presto. La porta
laterale dell’affittuario pendeva all’esterno dal cardine
superiore e oscillava appena appena al vento, e un uccello sulla
quercia dall’altro lato del vialetto d’accesso sembrava osservare
la porta con la testa inclinata mentre dall’interno continuavano a
venire le urla. Le ustioni peggiori comparivano sul braccio e sulla
spalla destri, sul petto e sulla pancia il rosso sfumava in rosa
sotto l’acqua fredda e la tenera pianta dei piedi non era coperta
di vesciche per quanto poteva vedere il papà, ma il frugoletto
continuava a stringere i pugni e a urlare anche se forse ormai solo
come reazione alla paura, in seguito il papà aveva capito di averla
considerata una possibilità, il faccino gonfio e le venuzze
sporgenti dalle tempie e il papà che continuava a ripetere che era
lì era lì, l’adrenalina in calo mentre la rabbia contro la mamma
per aver permesso che succedesse quella cosa iniziava a raccogliersi
a ciuffetti nell’angolo più remoto della mente, lontani ancora ore
dal giungere a espressione. Quando la mamma tornò lui si chiese se
non fosse il caso di avvolgere il bambino in un asciugamano ma
inzuppò l’asciugamano e l’avvolse, lo fasciò stretto stretto e
tirò fuori il suo piccino dal lavello e lo depose sul bordo del
tavolo della cucina per calmarlo mentre la mamma cercava di
controllare la pianta dei piedi gesticolando con la mano all’altezza
della bocca e pronunciando parole senza senso mentre il papà si
piegava trovandosi faccia a faccia col bambino sul bordo a quadretti
del tavolo a ribadire che lui era lì nel tentativo di placare le
urla del frugoletto ma il bambino continuava a spolmonarsi, un suono
acuto puro limpido capace di arrestarne il cuore e le minuscole
labbra e le gengive ora coperte del bluastro di una fiamma bassa
pensò il papà, urlando come se fosse ancora sotto la pentola
rovesciata in preda al dolore. Un minuto, due così che sembravano
molto più lunghi, con la mamma che a fianco del papà parlava con
voce cantilenante vicino al viso del bambino e l’allodola sul ramo
con la testa da un lato e il cardine che mostrava una nervatura
bianca sotto il peso della porta inclinata finché il primo fil di
fumo non spuntò indolente da sotto il lembo ripiegato
dell’asciugamano e gli occhi dei genitori s’incontrarono sbarrati
– il pannolino, che quando aprirono l’asciugamano e stesero il
figlioletto sulla tovaglia a quadri e slacciarono le linguette mezzo
squagliate e cercarono di toglierlo con rinnovate urla fece una certa
resistenza e scottava, il pannolino del figlio bruciava sotto le mani
e videro dove l’acqua era davvero caduta e si era raccolta
seguitando a bruciare il loro piccino per tutto quel tempo mentre lui
urlava perché lo aiutassero, cosa che non avevano fatto, non ci
avevano pensato e quando lo tolsero e videro com’era ridotto la
mamma disse il nome di battesimo del loro dio e si afferrò al tavolo
per non cadere mentre il padre si girava scagliando un pugno nel
vuoto e maledicendo se stesso e il mondo intero non per l’ultima
volta mentre suo figlio ora poteva sembrare addormentato, non fosse
stato per il ritmo del respiro e i piccoli inetti movimenti con le
mani nel vuoto, mani grandi come il pollice di un adulto che avevano
afferrato il pollice del papà nella culla mentre guardava la bocca
del papà che si muoveva nel cantare, e la testa inclinata sembrava
guardare al di là di lui a qualcosa con occhi che indirettamente
immalinconivano il papà. Se non avete mai pianto e volete piangere,
fate un figlio. Ti spezza il cuore e poi come continua un figlio è
la canzone stridula che il papà torna a sentire come se la donna
alla radio fosse lì con lui a guardare quello che hanno fatto, anche
se qualche ora dopo quello che il papà non riuscirà a perdonarsi è
quanto desiderasse una sigaretta proprio mentre facevano al bimbo un
pannolino di garza e l’avvolgevano in due asciugamani intrecciati e
il papà lo sollevava come un neonato con il cranio nel palmo e lo
portava fuori di corsa nel camioncino infocato bruciando le ruote
lungo il tragitto fino alla città e al pronto soccorso dell’ospedale
con la porta dell’inquilino penzolante tutto il giorno finché il
cardine non cedette ma ormai era troppo tardi, di fronte
all’inevitabile e alla loro impotenza il bambino aveva imparato ad
abbandonare se stesso e a guardare tutto il resto svolgersi da un
punto sovrastante, e quanto era andato perso da quel momento non
contava più, e il corpo del bambino si espanse e andò a zonzo e
batté cassa e visse la sua vita non più in affitto, cosa fra le
cose, l’anima della sua persona un tanto di vapore lassù in alto,
che cade come pioggia e poi risale, il saliscendi del sole uno yo-yo.
David
Foster Wallace, Incarnazioni di bambini bruciati