sabato 29 gennaio 2022

Vecchi

 

Ma cosa pensano che sia successo, quei vecchi scemi,
per ridursi così? Credono forse che tenere spalancata
la bocca
e sbavare e pisciarsi addosso di continuo
e scordarsi di chi li ha visitati stamane
li renda più adulti? O che, a volerlo, si potrebbe far tornare
indietro le cose fino a quando ballavano per tutta la notte
o andavano a sposarsi o portavano il fucile in settembre?
O fantasticano forse che in realtà niente è cambiato,
e che loro si sono sempre comportati da sciancati o
ubriachi,
seduti per giorni tra esili sogni incessanti
ad osservare la luce agitarsi? Se non lo fanno (e non
possono farlo), è strano:
perché non gridano?
Morendo, si va in frantumi: i pezzetti che erano te
incominciano, in gran fretta, a salutarsi l’un l’altro per
sempre,
inavvertiti da tutti. È solo oblio, certo:
ci capitava anche prima, ma allora finiva,
ed era continuamente assorbito in un unico sforzo
teso a far sbocciare il fiore dal milione di petali
dell’essere qua. La prossima volta non potrai fingere
che ci sia qualcos’altro. E questi sono i primi sintomi:
non sapere come, non sentire chi, il potere di scegliere
svanito. Il loro aspetto mostra che sono prossimi:
capelli di cenere, mani da rospo, volti rugosi come prugne
secche –
Come possono far finta di nulla?
Ma forse essere vecchi è avere stanze illuminate
dentro la testa, e in esse delle persone, che recitano.
Persone che conosci, ma di cui ti sfugge il nome;
ognuno appare in lontananza come un vuoto profondo
che si colma:
si volta sulla soglia di casa, sistema una lampada, sorride
da una scala,
prende un libro già letto dallo scaffale; oppure, qualche
volta,
soltanto quelle stanze, le sedie e un fuoco ardente
o, alla finestra, un cespuglio mosso dal vento o il sole,
timido e gentile, sul muro una serata solitaria
di mezza estate dopo l’acquazzone. È là che vivono:
non qui e adesso, ma là dove tutto è successo un tempo.
È per questo che suscitano
un’aria di sconcertata assenza: cercano di essere là
e sono ancora qui. Infatti le stanze svaniscono, lasciando
un freddo buono a niente, il continuo logorio
dell’affanno – e loro a ripiegarsi sotto
l’alpe dell’estinzione, vecchi scemi che non s’accorgono
mai
quanto è vicina. È per questo forse che se ne stanno calmi:
quel picco che noi, ovunque andiamo, ci troviamo di
fronte agli occhi
è per loro un’erta da salire. Potranno mai raccontare
cos’è che li trascina indietro, e come andrà a finire?
Non di sera? Non all’arrivo degli stranieri? E neppure
attraverso
tutta quell’orrenda infanzia alla rovescia? Be’,
lo scopriremo.

Philip Larkin, Vecchi scemi

  






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