sabato 8 gennaio 2022

Incarnations

 

Il papà era sul lato della casa a reggere una porta per l’affittuario quando udì la voce della mamma levarsi acuta fra le urla del bambino. Gli fu facile accorrere, la veranda nel retro dava direttamente sulla cucina, e prima che la doppia porta si richiudesse di scatto alle sue spalle il papà aveva abbracciato l’intera scena con lo sguardo, la pentola rovesciata sulle mattonelle davanti alla stufa e il getto azzurro del fornello a gas e la pozza d’acqua ancora fumante che si diramava in ogni direzione sul pavimento, il frugoletto infagottato nel pannolino in piedi rigido col vapore che esalava dai capelli e dal petto e dalle spalle porpora e gli occhi strabuzzati e la bocca spalancata che sembrava come separata dai suoni che emetteva, la mamma un ginocchio in terra che lo tamponava inutilmente con lo strofinaccio, coprendo con le sue le urla del bambino, isterica al punto da essere quasi impietrita. Il suo ginocchio e il piccolo tenero piede scalzo erano ancora immersi nella pozza fumante, e per prima cosa il papà prese il piccino per le ascelle, lo sollevò da terra e lo portò al lavello, dove buttati fuori i piatti aprì il rubinetto per far scorrere l’acqua fredda del pozzo sui piedi del bambino mentre ne raccoglieva altra nel cavo della mano e la versava o la gettava sulla testa sulle spalle e sul petto, non volendo innanzitutto più vedere il vapore esalare dal corpo, la mamma che da sopra la sua spalla invocava il Signore finché lui non la mandò a prendere degli asciugamani e a vedere se avevano della garza, il papà che si muoveva con efficienza, la sua mente maschile concentrata unicamente sullo scopo da raggiungere, ancora inconsapevole che lui si muoveva con disinvoltura o che aveva smesso di sentire le urla altissime perché sentirle lo avrebbe pietrificato rendendo impossibile fare quel che andava fatto per soccorrere la sua creatura, le cui urla avevano assunto la regolarità del respiro e si protraevano da tanto di quel tempo da essere diventate una presenza nella cucina, un’altra cosa da rimuovere al più presto. La porta laterale dell’affittuario pendeva all’esterno dal cardine superiore e oscillava appena appena al vento, e un uccello sulla quercia dall’altro lato del vialetto d’accesso sembrava osservare la porta con la testa inclinata mentre dall’interno continuavano a venire le urla. Le ustioni peggiori comparivano sul braccio e sulla spalla destri, sul petto e sulla pancia il rosso sfumava in rosa sotto l’acqua fredda e la tenera pianta dei piedi non era coperta di vesciche per quanto poteva vedere il papà, ma il frugoletto continuava a stringere i pugni e a urlare anche se forse ormai solo come reazione alla paura, in seguito il papà aveva capito di averla considerata una possibilità, il faccino gonfio e le venuzze sporgenti dalle tempie e il papà che continuava a ripetere che era lì era lì, l’adrenalina in calo mentre la rabbia contro la mamma per aver permesso che succedesse quella cosa iniziava a raccogliersi a ciuffetti nell’angolo più remoto della mente, lontani ancora ore dal giungere a espressione. Quando la mamma tornò lui si chiese se non fosse il caso di avvolgere il bambino in un asciugamano ma inzuppò l’asciugamano e l’avvolse, lo fasciò stretto stretto e tirò fuori il suo piccino dal lavello e lo depose sul bordo del tavolo della cucina per calmarlo mentre la mamma cercava di controllare la pianta dei piedi gesticolando con la mano all’altezza della bocca e pronunciando parole senza senso mentre il papà si piegava trovandosi faccia a faccia col bambino sul bordo a quadretti del tavolo a ribadire che lui era lì nel tentativo di placare le urla del frugoletto ma il bambino continuava a spolmonarsi, un suono acuto puro limpido capace di arrestarne il cuore e le minuscole labbra e le gengive ora coperte del bluastro di una fiamma bassa pensò il papà, urlando come se fosse ancora sotto la pentola rovesciata in preda al dolore. Un minuto, due così che sembravano molto più lunghi, con la mamma che a fianco del papà parlava con voce cantilenante vicino al viso del bambino e l’allodola sul ramo con la testa da un lato e il cardine che mostrava una nervatura bianca sotto il peso della porta inclinata finché il primo fil di fumo non spuntò indolente da sotto il lembo ripiegato dell’asciugamano e gli occhi dei genitori s’incontrarono sbarrati – il pannolino, che quando aprirono l’asciugamano e stesero il figlioletto sulla tovaglia a quadri e slacciarono le linguette mezzo squagliate e cercarono di toglierlo con rinnovate urla fece una certa resistenza e scottava, il pannolino del figlio bruciava sotto le mani e videro dove l’acqua era davvero caduta e si era raccolta seguitando a bruciare il loro piccino per tutto quel tempo mentre lui urlava perché lo aiutassero, cosa che non avevano fatto, non ci avevano pensato e quando lo tolsero e videro com’era ridotto la mamma disse il nome di battesimo del loro dio e si afferrò al tavolo per non cadere mentre il padre si girava scagliando un pugno nel vuoto e maledicendo se stesso e il mondo intero non per l’ultima volta mentre suo figlio ora poteva sembrare addormentato, non fosse stato per il ritmo del respiro e i piccoli inetti movimenti con le mani nel vuoto, mani grandi come il pollice di un adulto che avevano afferrato il pollice del papà nella culla mentre guardava la bocca del papà che si muoveva nel cantare, e la testa inclinata sembrava guardare al di là di lui a qualcosa con occhi che indirettamente immalinconivano il papà. Se non avete mai pianto e volete piangere, fate un figlio. Ti spezza il cuore e poi come continua un figlio è la canzone stridula che il papà torna a sentire come se la donna alla radio fosse lì con lui a guardare quello che hanno fatto, anche se qualche ora dopo quello che il papà non riuscirà a perdonarsi è quanto desiderasse una sigaretta proprio mentre facevano al bimbo un pannolino di garza e l’avvolgevano in due asciugamani intrecciati e il papà lo sollevava come un neonato con il cranio nel palmo e lo portava fuori di corsa nel camioncino infocato bruciando le ruote lungo il tragitto fino alla città e al pronto soccorso dell’ospedale con la porta dell’inquilino penzolante tutto il giorno finché il cardine non cedette ma ormai era troppo tardi, di fronte all’inevitabile e alla loro impotenza il bambino aveva imparato ad abbandonare se stesso e a guardare tutto il resto svolgersi da un punto sovrastante, e quanto era andato perso da quel momento non contava più, e il corpo del bambino si espanse e andò a zonzo e batté cassa e visse la sua vita non più in affitto, cosa fra le cose, l’anima della sua persona un tanto di vapore lassù in alto, che cade come pioggia e poi risale, il saliscendi del sole uno yo-yo.

David Foster Wallace, Incarnazioni di bambini bruciati




 

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