Stavo imparando in fretta le arti dello zitellaggio. Aprivo tende ornate di pizzo per guardare in strada; osservavo le particelle di polvere fluttuare nella luce del sole; ricamavo i minuti, trasformando il tempo in rocchetti di filo; mettevo da parte i sacchetti di carta, ripiegandoli con cura e legandoli insieme con pezzi di spago.
Anche da ragazza avevo sognato di diventare una vecchia zitella, probabilmente perché la vita di mamma mi era sempre sembrata così sgradevole. Sedeva alla macchina da cucire, cercando di accorciare un orlo, poi una pentola cominciava a bollire, con il coperchio che borbottava, allora saltava in piedi e correva in cucina, poi il telefono cominciava a suonare – il droghiere che pretendeva di essere pagato o qualche altra chiamata del genere. Se si sedeva un momento a migliorare la propria cultura con il Saturday Evening Post, ben presto si alzava nuovamente di scatto per scomparire oltre la porta della cucina, dove la sentivo sospirare ad alta voce: “Accidenti, accidenti, accidenti” mentre cercava di accendere il forno.
L’esatto
contrario della mia frettolosa madre erano le zitelle (…)
Mi
stregavano i suoni ovattati delle loro case, i loro piatti pieni di
caramelle, i loro rituali privati (…) Mi piaceva immaginare come
vivessero in tutto quello spazio vuoto, come lavassero un piatto alla
volta, cercando di far durare quel lavoro il più a lungo possibile,
in modo da riempire le loro serate. Dovevo avere otto o nove anni
quando decisi che volevo quel genere di tranquillità, quella
semplicità quasi religiosa
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