Negli
allevamenti per la produzione di latte, la speranza è che nasca una
femmina: si aspettano 15 mesi, la si insemina e dopo il parto si
comincia la mungitura. I vitellini sono venduti ad allevamenti
specializzati, che li alimentano quasi esclusivamente con latte in
polvere per mantenere il colore della carne chiaro, prima di
macellarli dopo 190 giorni. L’Italia produce circa il 70 per cento
del suo fabbisogno con una produzione annua di circa 800mila capi.
(Stefano Belacchi, Essere animali)
Stefano
Liberti, giornalista
È
il grande rimosso del nostro tempo. Gli allevamenti intensivi – i
capannoni dove gli animali sono rinchiusi, fatti ingrassare,
trattati con antibiotici per evitare che si ammalino, infine inviati
alla macellazione – sono qualcosa che nessuno vuole vedere.
Paradossalmente, mentre cresce il consumo di carne al livello
globale, aumenta la distanza fisica e anche cognitiva tra noi esseri
umani e gli animali di cui ci nutriamo.
Degli
8,5 milioni di maiali allevati in Italia, l’80 per cento si trova
in Lombardia, Emilia-Romagna e Piemonte. L’organizzazione
produttiva dell’allevamento suinicolo si divide in riproduzione e
ingrasso. Le strutture più grandi compiono l’intero ciclo
produttivo al loro interno, ma la maggior parte si dedica solamente
all’ingrasso di animali nati in altri allevamenti. Oggi in Italia
ci sono 521mila scrofe. (Marco Lattanzi, Essere animali)
Eppure,
quella animale dovrebbe essere una delle questioni più dibattute
del mondo contemporaneo, con le sue enormi implicazioni morali, ma
anche ambientali ed energetiche. Oggi, nel mondo due animali su tre
sono allevati in questo modo. Il sistema non è sostenibile: le
bestie rinchiuse nei capannoni devono essere nutrite. Milioni di
ettari di terreno servono alla produzione di cereali e legumi per i
mangimi, e sono sottratti alla coltivazione per l’alimentazione
umana. Secondo le stime
di Tony Weis, professore all’università di Western Ontario, il
meccanismo allevamenti-colture per la produzione di mangimi occupa
oggi un terzo delle terre arabili.
Il
99 per cento della carne di coniglio proviene da allevamenti dove gli
animali sono tenuti in gabbia; una condizione che non gli permette di
soddisfare bisogni primari come scavare, correre e saltare. I conigli
sono una delle principali prede del mondo animale, il loro scheletro,
vedi i lunghi arti, è progettato per fuggire: quando corrono toccano
la velocità di 30 chilometri orari e saltano fino a un metro
d’altezza. (Stefano Belacchi, Essere animali)
L’allevamento
intensivo è nato nel 1923 negli Stati Uniti quasi per caso: la
signora Celia Steele, di Oceanview (Delaware), ricevette per errore
500 pulcini invece dei 50 che aveva ordinato. Non volendo
disfarsene, pensò di chiuderli in un capannone, li nutrì con mais
e integratori e gli animali resistettero all’inverno. Replicò
l’operazione e diventò milionaria. Negli anni settanta un
agricoltore del North Carolina, Wendell Murphy, applicò il metodo
di Steele ai maiali. Seguirono le mucche, i conigli, i tacchini.
Negli Stati Uniti, ci sono circa
70 milioni di maiali rinchiusi nei capannoni.
Una
settimana prima del parto le scrofe sono trasferite in questi box
individuali; qui partoriscono e rimangono per tutto il periodo dello
svezzamento (dai 21 a 28 giorni, tempo minimo stabilito per legge).
In media una scrofa partorisce 12 suinetti 2,25 volte all’anno,
l’11 per cento muore prima dello svezzamento. La carriera
produttiva di una scrofa è considerata valida se concepisce più di
60 maialini, mediamente viene “riformata” dopo 4-6 parti all’età
di circa tre anni, in natura arriva anche a 15. (Jo-Anne McArthur,
Essere animali)
E
in Italia? Secondo le cifre dell’anagrafe
zootecnica italiana, sono otto milioni, l’80 per cento dei
quali ripartiti tra Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. Nella
sola provincia di Brescia ci sono 1.286.418 suini, circa ventimila
più dei residenti. Nessuno li vede, perché nessuno li vuole
vedere.
Nel
2013, a 90 anni dalla nascita del primo allevamento intensivo negli
Stati Uniti, sono stati macellati al livello globale 24 miliardi
di polli. L’Italia ne alleva 500 milioni
all’anno producendo più di quanto consuma con una percentuale di
autoapprovvigionamento del 106 per cento. (Stefano Belacchi, Essere
animali)
L’indagine
dell’associazione Essere
animali è la più completa mai condotta in Italia. Si tratta di
un lavoro clandestino, fatto di appostamenti, di accessi notturni,
di inviati sotto copertura. Le immagini che ne sono scaturite, di
cui presentiamo qui una selezione, sono inquietanti. I maiali sono
ammassati in spazi minuscoli, le scrofe sono imprigionate nelle
cosiddette gabbie di gestazione, che gli impediscono ogni movimento.
I polli “allevati a terra” (come si legge sulle etichette delle
uova) vivono in capannoni sovraffollati privi di contatto con
l’esterno. Gli uccelli non riescono a stare in piedi sulle proprie
zampe perché sono letteralmente “gonfiati” con mangimi e
ormoni. Tutto ciò non è un’eccezione, ma la prassi. Ed è una
prassi del tutto legale.
La
struttura e le dimensioni delle gabbie di gestazione non permettono
alla scrofa di girarsi su se stessa, un blocco totale dei movimenti
imposto dagli allevatori al fine di prevenire che le madri schiaccino
i cuccioli. All’interno di questi box i lattonzoli possono morire
schiacciati, ci sono animali che partoriscono sopra i loro escrementi
e scrofe con grosse piaghe dovute allo sfregamento con le barre di
ferro dei box. (Stefano Belacchi, Essere animali)
Lontani
dai riflettori, questi animali risultano invisibili. Sono pura e
semplice materia prima. Ma anche coloro che lavorano in questi
capannoni sono invisibili: la grande maggioranza della manodopera
negli allevamenti intensivi è costituita da immigrati, per lo più
indiani, sottoposti a turni massacranti e a mansioni che molti di
noi non accetterebbero. Questo è il sistema di sfruttamento e di
sofferenza alla base della produzione intensiva di carne. Quel
sistema che l’industria non vuole mostrare, ma che noi fingiamo di
ignorare, felici di ottenere carne a basso costo il più spesso
possibile.
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