Tra
le cose essenziali che si preparano dentro di noi vi sono gli
incontri rinviati. Può trattarsi di luoghi e di uomini, di quadri
come di libri. Vi sono città per le quali provo un’attrazione così
forte come se fossi predestinato a trascorrervi una vita intera fin
dall’inizio. Con mille astuzie evito di andarvi, e ogni volta che
si presenta l’occasione di visitarle e vi rinuncio, sento aumentare
a tal segno la loro importanza che si potrebbe quasi pensare che io
sono ancora nel mondo soltanto per quelle città e che sarei già
scomparso da un pezzo se non ci fossero loro che continuano ad
aspettarmi.
Vi
sono persone di cui mi piace sentir parlare, e allora ascolto quanto
più è possibile e con tale avidità che si potrebbe quasi pensare
che in fondo so di loro più di quanto ne sappiano esse stesse – ma
evito di guardare una loro fotografia e mi sottraggo ad ogni
raffigurazione visiva, come se un divieto particolare e legittimo
impedisse di conoscere la loro faccia. Vi sono anche persone che mi
incontrano per anni sul medesimo percorso, che mi danno motivo di
riflettere e mi appaiono come enigmi di cui sono chiamato a trovare
la soluzione, e tuttavia io non rivolgo loro la parola, proseguo in
silenzio per la mia strada, come esse fanno con me, e tutt’e due ci
scambiamo sguardi interrogativi, tutt’e due teniamo le labbra ben
chiuse: io penso a quello che sarà il nostro primo colloquio e mi
eccito all’idea di tutte le cose inaspettate che scoprirò allora.
E
infine vi sono persone che amo da anni senza che esse possano averne
il minimo sospetto, e intanto io divento sempre più vecchio, e ormai
deve apparire come un’assurda illusione l’idea che io glielo dica
mai, sebbene io viva sempre nell’attesa di questo momento stupendo.
Senza questo minuzioso prepararmi al futuro non sarei capace di
vivere, e per me, se mi studio attentamente, questi preparativi non
sono meno importanti delle improvvise sorprese che arrivano come dal
nulla e lasciano senza parola.
Ogni
tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque
la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la
capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva
in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione
poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione,
inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti
modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano
l’ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava
sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti.
Primo
Levi, Un passato che credevamo non dovesse tornare più,
Naturalmente
la ragione è odiosa, ma perché? Perché dimostra (a quelli che ne
hanno il coraggio) che noi, i vivi, siamo fuori dalla vita –
completamente fuori. I misteri di un universo fatto di gocce di fuoco
e zolle di fango non ci riguardano affatto. Non vale la pena di
preoccuparsi del destino di un’umanità condannata, alla fine, a
perire per il freddo. Se te lo prendi a cuore, diventa una tragedia
insopportabile.
Se
credi nel progresso non conoscerai che lacrime, perché la
perfezione, una volta raggiunta, deve finire nel freddo, nella
tenebra e nel silenzio. Da un punto di vista spassionato l’ardore
di riforme e progresso, virtù, conoscenza, e perfino bellezza, è
solo un vano aggrapparsi alle apparenze, come preoccuparsi del taglio
dei propri vestiti in una comunità di ciechi.
La
vita non ci conosce e noi non conosciamo la vita – non conosciamo
nemmeno i nostri stessi pensieri. Metà delle parole che usiamo non
ha alcun significato, e dell’altra metà ognuno comprende ogni
parola secondo il suggerimento della propria follia e presunzione. La
fede è un mito e le credenze fluttuano come nebbie sulla costa: i
pensieri svaniscono; le parole, una volta pronunciate, muoiono; e la
memoria di ieri è altrettanto vaga della speranza di domani – solo
la sfilza delle mie banalità sembra non aver fine.
La
vera bontà dell'uomo si può manifestare in tutta purezza e libertà
solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza. Il vero esame
morale dell'umanità, l'esame fondamentale (posto così in profondità
da sfuggire al nostro sguardo) è il suo rapporto con coloro che sono
alla sua mercé: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento
dell'uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri.
Per
me la solitudine è come per altri la benedizione della chiesa. È la
luce della grazia. Non chiudo mai la porta alle mie spalle senza la
coscienza di compiere un gesto misericordioso nei miei confronti.
Cantor illustrava ai suoi allievi il concetto di infinito raccontando
che c'era una volta un uomo che possedeva un albergo con un numero di
stanze infinito, e l'albergo era al completo. Poi arrivò un altro
ospite. L'albergatore spostò allora l'ospite della stanza numero uno
nella numero due, quello della numero due nella tre, quello della tre
nella quattro, e via di seguito. Così la stanza numero uno rimase
libera per il nuovo ospite. Ciò che mi piace di questa storia è che
tutti coloro che vi sono coinvolti, gli ospiti e l'albergatore,
considerano normalissimo compiere un numero infinito di operazioni
perché un ospite possa trovare pace in una stanza tutta sua. È un
grande omaggio alla solitudine.
Chi
ha steso braccia al largo
battendo le pinne dei piedi
gli
occhi assorti nel buio del respiro,
chi si è immerso nel fondo
di pupilla
di una cernia intanata
dimenticando l’aria,
chi ha legato
all’albero una tela e ha combinato
la
rotta e la deriva, chi ha remato
in piedi a legni lunghi:
questi sanno
che le acque hanno volti.
E sopra i volti
affiorano
burrasche, bonacce, correnti
e il salto dei
pesci che sognano il volo.
Non
chiedo che si sostituisca lo Stato con una Biblioteca -benché questa
idea abbia visitato più volte la mia mente-; ma per me non c’è
dubbio che se scegliessimo i nostri governanti sulla base della loro
esperienza di lettori, e non sulla base dei loro programmi politici,
ci sarebbe assai meno sofferenza sulla terra.
«Mi
sembra una barbarie ferire sempre lo stesso albero ed estrarne troppa
linfa in una volta sola, come fanno certe persone in zone che godono
di una fama migliore della nostra. La linfa di betulla viene venduta
a caro prezzo e a nessuno importa degli alberi prosciugati e pieni di
cicatrici. Io invece perforo la corteccia con cautela, inserisco un
tubicino, ci metto sotto il vasetto e lo lego stringendo forte.
L’elisir defluisce goccia a goccia e dopo alcuni giorni, quando
vado a recuperarlo, richiudo l’area ferita con la stessa cura che
riservavo ai pazienti». Da giovane Baba Dunja si portava dietro
anche i figli, Irina e Alexej, ricordando loro: «Non distruggete
niente, se non è necessario. È difficile riparare le cose e in
alcuni casi sono perse per sempre».
Alina
Bronsky, L’ultimo
amore di Baba Dunja
Ci
sono giorni in cui i morti si pestano i piedi a vicenda sulla nostra
via principale. Parlano tutti assieme e non si rendono conto delle
sciocchezze che raccontano. Il brusio delle voci aleggia sulle loro
teste. E poi ci sono giorni in cui invece non c’è nessuno. Non so
che fine facciano. Forse lo saprò quando sarò una di loro.
These
animals are seeing the sun for the first time...
Every
year in Italy, hundreds of thousands of animals die in laboratories.
Some are used for lethal tests, but most could be saved: many are
used for experiments from which they could easily recover and restart
normal life, others are not actually used in test, but are kept in
laboratories as a surplus of safety or control, and once the
experiment has ended they become “a useless expense” for labs .
Italian
law allows experimental laboratories not to kill healthy and
‘salvable’ animals, but to release them to individuals or
charity, like La Collina dei Conigli. Retirements are agreed by the
association directly with trial laboratories through delicate
negotiations, which often entail shortages of many animals at a time.
La
Collina dei Conigli has specialized in the recovery of rabbits and
critters, dealing with them from the lab’s exit to (hopefully) a
new life in a family.
I
have been supporting this charity for years now with my pictures as a
volunteer photographer.
Shy
ones, little warriors, curious explorers, cuddle-lovers: everyone
acted in a different way when taken outdoors, and they showed once
again that they are not mere numbers, as they are considered in labs,
but individuals with peculiar attitudes and personalities.
"Noi
confidiamo che il tempo sia lineare, che proceda eternamente,
uniformemente, verso l’infinito. Ma la distinzione tra passato,
presente e futuro è un’illusione. Ieri, oggi, domani sono
conservativi. Sono collegati in un cerchio infinito. Tutto è
collegato”
Aveva,
sotto sotto, poca voglia di arrivare; avrebbe preferito assai più
cenare da sola in terrazza. Cenare là nelle sere di giugno, quando
ancora era giorno, e dopo cena lasciarsi avvolgere a poco a poco
dalla dolcezza notturna, era un piacere che le pareva non potesse
stancarla mai. Le dava un senso delizioso di pace; ma non una pace
vuota vagamente letargica, una pace, piuttosto, attiva e eccitante,
in cui il suo cervello era ben desto e i sensi vivi e pronti. Forse
era quell'aria toscana, leggera, con qualcosa che agiva su di te in
modo che anche la sensazione fisica aveva un che di spirituale. Ti
dava la stessa emozione della musica di Mozart, così melodiosa e
gaia, col suo sostrato di malinconia, così appagante che ti sentivi
come sciolto dal peso della carne. Per qualche istante felice eri
mondato da ogni volgarità, e la confusione della vita si dissolveva
in una grazia perfetta.
Formaggi
- vanno a male
mele - raggrinziscono, marciscono
nuvole -
mutevoli per la loro intima struttura
giulebbe di mele cotogne -
si ricopre di muffa
amanti - invecchiano, raggrinziscono (vedi
le mele)
bambini - crescono
pupazzi di neve - si
squagliano
girini e bruchi - corporeamente incostanti.
Ne
deriva che nulla di organico può essere collezionato.
Un mondo
sul punto sempre di scadere. Un mondo di breve durata, che si
raggrinza, marcisce, va a male (e perciò) : STUPENDO
«Per
umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia, e colui
che è umiliato e soprattutto: che si lascia umiliare. Se manca il
secondo, e cioè la parte passiva è immune da ogni umiliazione,
questa evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni
fastidiose che interferiscono nella vita di tutti i giorni, ma
nessuna umiliazione e oppressione angosciose. Si deve insegnarlo agli
ebrei... Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono
privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di
movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori
con il nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci
perseguitati, umiliati, oppressi, col nostro odio e la millanteria
che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può essere tristi e
abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia
così.
E
tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo
bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me
come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso
pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a
prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da
sè: e lavorare ‘a se stessi’ non è proprio una forma
d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà essere
veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se
stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il
prossimo, per trasformarlo in qualcosa di diverso, forse alla lunga in
amore se non è chiedere troppo -. È l’unica soluzione
possibile... Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo
proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra.»
Etty
Hillesum, Middelburg, 15 gennaio 1914 / Auschwitz, 30 novembre 1943
«Ma
cosa credete, che non veda il filo spinato, non veda i forni, non
veda il dominio della morte, sì, ma vedo anche uno spicchio di
cielo, e questo spicchio di cielo ce l' ho nel cuore, e in questo
spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza.
Guarracino,
in italiano Castagnola, è il nome napoletano del Chromis chromis,
un piccolo pesce dei Pomacentridi. Ma ci sono anche il guarracino di
scoglio, Apogon rex mullorum, detto “re di triglie” dai
pescatori di Malta; il guarracino o monacella rossa, Anthias
sacer; il guarracino o monacella nera, Heliaseschromis.
L’Alletterato (Euthynnus allitteratus), così detto dalle
macchie sul dorso simili a segni dell’alfabeto, è invece di
dimensioni più ragguardevoli – circa un metro di lunghezza – e
appartiene alla stessa famiglia del tonno. Sardella sta per la comune
sardina, la Sardina pilchardus dei Clupeidi.
La canzone è il resoconto
di un’epica rissa fra pesci, celenterati e molluschi d’ogni
genere (non senza qualche intrusione di oriundi d’acqua dolce e di
cetacei) nelle acque del Golfo di Napoli, originata da un Guarracino
e un Alletterato che si contendono i favori di una Sardella.
Il
mare del Guarracino è lo specchio del mondo di sopra –
vivace, animato, rumoroso; a Napoli neanche i pesci stanno zitti.
Pasquale
Barbella
Lu
Guarracino che jeva pe’ mare le venne voglia de se ‘nzorare,
se
facette ‘nu bello vestito de scarde e de spine pulito pulito
cu
‘na perucca tutta ‘ngrifata de ziarelle ‘mbrasciolata,
co
lo sciabò scolla e puzine de ponte angrese fine fine.
Cu
li cazune de rezze de funno, scarpe e cazette de pelle de tunno,
e
sciammeria e sciammereino d’aleche e pile de voje marino,
co
buttune e bottunera d’uocchie de purpe, secce e fera,
fibbia,
spata e schiocche ‘ndorate de niro de secce e fele d’achiate.
Doje
belle cateniglie, de premmone de conchiglie,
‘nu cappiello
aggallonato de codarino d’aluzzo salato
tutto posema e
steratiello, jeva facenno lo sbafantiello,
girava de ccà e de
llà: la ‘nnammorata pe’ se truva’.
La Sardella a lu
balcone steva sonanno lu calascione;
e a suono de trommetta jeva
cantanno ‘st’arietta: “E
llarè lo mare e lena e la figlia da siè Lena,
ha lasciato lo
‘nnammorato pecché niente l’ha rialato”. Lo
Guarracino che la guardaje de la sardella s’ annammoraje;
se
ne jette da ‘na Vavosa la cchiù vecchia e maleziosa;
l’ebbe
bona rialata pe’ mannarle la ‘mmasciata;
la Vavosa pisse
pisse chiatto e tunno ‘nce lo disse.
Ma la sardella che
la sentette rossa rossa se facette, pe’
lo scuorno che se pigliaje sotto a ‘no scuoglio se ‘mpezzaie;
ma
la vecchia de la vavosa subete disse – Ah schefenzosa!
De ‘sta
manera non truove partito, ‘ncanna te resta lu marito.
Si aje
voglia de t’alloca’ tante smorfie non aje da fa’,
fora le
zeze e fora lo scuorno anema e core e faccia de cuorno.
Ciò
sentenno la zì Sardella s’affacciaje a la fenestrella,
facette
l’uocchio a zennariello a lo speruto ‘nnammoratiello.
Ma la
Patella che steva de posta la chiammaje faccia tosta,
tradetora,
sbrevognata, senza parola, male nata,
ch’avea ‘nchiantato
l’Allitterato primmo e antico ‘nnammorato:
de carrera da
chisto jette e ogni cosa ‘lle dicette.
Quanno lo ‘ntise lo
poveriello se lo pigliaje Farfariello,
jette a casa s’armaje e
rasulo se carrecaje comm’a ‘nu mulo,
de scoppette e de
spingarde, povere, palle stoppa e scarde;
quatto pistole tre
bajonette dint’a la sacca se mettette.
‘Ncopp li spalle
sittanta pistune ottanta bombe e nuvanta cannune;
e comm’a
guappo Pallarino jeva truvanno lo Guarracino:
la disgrazia a
chisto portaje che mmiezo a la chiazza te lo ‘ncontraje se
l’afferra po cruvattino
e po’ lle dice: – Ah malandrino!
Tu me lieve la ‘nnammorata
e pigliatella sta mazziata.
Tuppete e tappete a meliune le deva
paccare e secuzzune,
schiaffe, ponie e perepesse scoppolune,
fecozze e cunnesse,
sceverechiune, sicutennosse e ll’ammaccai
osse e pilosse.
Venimmoncenne ch’a lo rummore pariente e amice
ascettere fore,
chi co mazze, cortielle e cortelle, chi co
spate, spatune e spatelle,
chiste cu barre e chille cu spite,
chi co ammennole e chi cu antrite,
chi cu tenaglie e chi cu
martielle, chi cu turrone e susamielle.
Patre, figlie marite e
mugliere s’azzuffajeno comm’a fere.
A meliune currevano a
strisce, de ‘stu partito e de chillo li pisce,
che bediste de
sarde e d’alose, de palaje e raje petrose,
sareche, dientece
ed achiate, scurme, tunne e alletterate!
Pisce
palumme e pescatrice, scuorfene, cernie e alice,
mucchie,
ricciole, musdee e mazzune, stelle, aluzze e storiune,
merluzze,
ruongole e murene, capodoglie, orche e vallene,
capitune, auglie
e arenghe, ciefere, cuocce, tracene e tenghe.
Treglie,
tremmole, trotte e tunne, fiche, cepolle, launne e retunne;
purpe,
secce e calamare, piscespate e stelle de mare,
pisce palumme e
pisce martiello voccadoro e cecenielle,
capochiuove e
guarracine, cannolicchie, òstreche e ancine.
Vongole, cocciole
e patelle, piscecane e grancetielle,
marvizze, marmure e
vavose,vope prene, vedove e spose,
Spinole, spuonole,
sierpe e sarpe, scauze, ‘nzuoccole e colle scarpe,
sconciglie,
gàmmere e ragoste, vennero ‘nfino colle poste…
Capitune,
saure e anguille, pisce gruosse e piccerille,
d’ogni ceto e
nazione, tantille, tante, cchiu tante e tantone!
Quanta botte,
mamma mia! che se devano, arrassosia!
A centenare le barrate! A
meliune le petrate!
Muorze e pizzeche a beliune! A
delluvio li secozzune!
Non ve dico che bivo fuoco se faceva per
ogne luoco!
Ttè, ttè, ttè, ccà pistulate! Ttà, ttà, ttà,
llà scuppettate!
Ttù, ttù, ttù, ccà li pistune! Bù, bù,
bù, llà li cannune!
Ma de canta’ so’ già
stracquato, e me manca mò lo sciato;
sicché, dateme licenza,
graziosa e bella audienza,
‘nfì che sorchio ‘na meza de
seje, co’ salute de luje e de leje,
ca me se secca lo
cannarone sbacantannose lo premmone.
Uno
dei miei insegnanti, che stimavo molto, diceva sempre che il compito
della buona letteratura è tranquillizzare chi è turbato e turbare
chi è tranquillo. Secondo me il compito della letteratura alta
consiste in gran parte nel dare al lettore, che come tutti noi è un
po’ impantanato dentro la propria testa, nel dargli accesso,
dicevo, tramite l’immaginazione, alla vita interiore di altri
individui. Dato che una parte ineluttabile dell’essere umano è la
sofferenza, ciò che noi esseri umani cerchiamo nell’arte è anche
un’esperienza di sofferenza: che sarà necessariamente
un’esperienza mediata, o per meglio dire una generalizzazione
della sofferenza. Capisci cosa intendo? Nel mondo reale tutti
soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera
letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci
con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile
pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un
pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro.
Magari è tutto qui, semplicemente.
Però
a questo punto tieni presente che la tv e il cinema commerciale
e tante forme di arte “bassa” – ossia arte il cui scopo
principale è fare soldi – sono redditizi proprio perché capiscono
che il pubblico preferisce un cento per cento di piacere alla realtà
che tende a essere fatta per il 49 per cento di piacere e per il 51
per cento di dolore. Mentre l’arte “alta”, quella che non punta
principalmente a farti sborsare dei soldi, è più probabile che ti
causi malessere, o che ti costringa a faticare per arrivare ai suoi
piaceri, proprio come nella vita reale il vero piacere è in genere
un derivato della fatica e del disagio. Perciò è difficile per il
pubblico dell’arte, specialmente quello più giovane, che è stato
educato ad aspettarsi che l’arte susciti piacere al cento per
cento, e senza nessuno sforzo, leggere e apprezzare la letteratura
alta. E questo è un male. Il problema non è che i lettori di oggi
sono stupidi, non penso che sia così. È solo che la tv e la
cultura commerciale di massa li hanno addestrati a essere piuttosto
pigri e infantili nelle loro aspettative. E questo rende più
difficile che mai cercare di coinvolgere i lettori di oggi, sia a
livello intellettuale che di immaginario
David Foster Wallace, Un
antidoto contro la solitudine
Però
ci sono parecchi libri che dopo averli letti mi hanno lasciato per
sempre diverso da com'ero prima, e penso che tutta la buona
letteratura in qualche modo affronti il problema della solitudine e
agisca come un suo lenitivo.
Siamo tutti tremendamente, tremendamente
soli. Ma c'è qualcosa, quantomeno nei romanzi e nei racconti, che ti
permette di entrare in intimità con il mondo e con un'altra mente, e
con certi personaggi, in un modo in cui non puoi proprio farlo, nel
mondo reale
Complicare
è facile, semplificare è difficile.
Per complicare basta
aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme,
azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose.
Tutti
sono capaci di complicare.
Pochi sono capaci di
semplificare.
Per semplificare bisogna togliere, e per
togliere bisogna sapere che cosa togliere, come fa lo scultore
quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto
quel materiale che c’è in più. Teoricamente ogni masso di
pietra può avere al suo interno una scultura bellissima, come
si fa a sapere dove ci si deve fermare nel togliere, senza
rovinare la scultura? Togliere invece che aggiungere vuol
dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro
essenzialità.
La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un
antico detto cinese dice: quello che non si può dire in poche
parole non si può dirlo neanche in molte.
“Sono
morto alle sette di mattina. Un modo come un altro per cominciare la
giornata”
Ho
scritto queste cartoline dopo i piccoli attacchi di panico che
continuano a visitarmi. Non sono piú gli attacchi di una volta,
quelli per cui cerchi qualcuno che ti accompagni in ospedale e se non
lo trovi ci vai da solo e quando ci arrivi ancora non ti è chiaro se
stai morendo davvero o sei a un altro capitolo della tua penosa
ipocondria. Ho provato a scrivere delle cartoline anche in altri
momenti, ci ho provato un po’ di volte, ma ho buttato tutto. Erano
simili alle altre, il disegno delle frasi era quello, quello il
colore, ma la stoffa era asciutta, non era bagnata in quell’umore
che ti viene dalla morte appena trascorsa. Allora puoi scrivere
intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente
che sorregge e corrode ogni cosa. Lo sguardo del panico dilata i
sensi, li fa grezzi, non hai tempo di raffinare, di romanzare. Dopo
dieci, venti minuti sei di nuovo sul binario morto della calma o
dell’agitazione usuale e allora puoi solo parlare della tua vita o
di quella degli altri.
I
morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina.