Oggi
si dà alla parola diverso
una dimensione fisica o psichica limitata alla sfera affettiva,
personale. I veri diversi, per mia esperienza, sono altri, e sono di
sempre: sono i cercatori d’identità, propria e collettiva, e
nazionale, e d’anima. Coloro che videro il cielo, che mai lo
dimenticarono, che parlarono al disopra dell’emozione, dove l’anima
è calma. Che non credono, o credono poco, ai partiti, le classi, i
confini, le barriere, le fazioni, le armi, le guerre. Che nel denaro
non hanno posto alcuna parte dell’anima, e quindi sono
incomparabili.
Quelli
che vedono il dolore, l’abuso; vedono la bontà o l’iniquità,
dovunque siano, e sentono come dovere il parlarne. I cercatori di
silenzio, di spazio, di notte, che è intorno al mondo, di luce che è
intorno al cuore. Questi diversi, che vorrebbero semplicemente dare
il senso del segreto umano, e trovare, o indicare, il rapporto di
dovere tra vita e vita, non dovrebbero, io penso, essere considerati
scrittori moralistici o politici. Ma è quello che si fa, quando non
hanno difesa di confratelli, e lo spazio per loro, nel paese, va
vertiginosamente rimpicciolendo. È quello che si fa, se non hanno
denaro proprio e, ripeto, sono fragili. A loro la vita viene
sottratta con la sottrazione dell’altro – che ora parla altra
lingua! E quando vorrà mostrare a che cosa, nel suo paese, e sotto
gli occhi di tutti, sia ridotta la vita – discarica e ammazzatoio,
dopo allevamento e oscuramento – lo si indicherà come guastatore e
visionario. E del resto, poco per volta, facendo scendere su di lui,
per ogni libro, la cappa del silenzio o, alzando i megafoni della
distorsione, gli saranno tolti lecito guadagno e quella sempre
sperata indipendenza; e sotto la spada della dipendenza, condotto a
un cortile, un luogo di servitù e di silenzio dove vivono le
minoranze – che impediscono gli affari – di tanti paesi, a lui
toccherà, con l’indebolimento, un ben strano destino. Di credersi
il peggiore e trovarsi, alla fine, dopo mille convulsioni di speranza
e di dolore, d’accordo con quanti lo spinsero via e persuasero di
essere un sognatore, con nulla o quasi da dire.
E
forse il castigo, forse non castigo – reale sanzione del nulla a
coloro che onorarono la maestà del vivere e patire terreno -, fu
l’indurli a credere che non vi era maestà del vivere e del patire.
Che la vita, semplicemente, onorava il «buon senso»: e il trionfo
del «buon senso» su una qualsiasi fede, il piede pressato
freddamente sul cuore del vinto, era in realtà tutto ciò che agli
onesti, ai normali, Dio richiedeva.
Anna
Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi
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