Questa
è la storia di
Barbara
Bartolotti.
Barbara
all’epoca dei fatti, nel
2003,
aveva 29 anni, un marito poliziotto
e
due bambini. Lavora
come contabile in un’azienda edile di Palermo. Scopre di
aspettare il terzo figlio e a questa notizia un suo collega, da tempo
segretamente invaghito di lei, reagisce male. L’uomo non accetta
che la donna non possa essere sua, nonostante fra loro non ci sia mai
stata una relazione.
Con
il pretesto di un sopralluogo lavorativo, l’uomo porta Barbara in
un luogo isolato e mentre lei chiama al cellulare il marito la
colpisce alle spalle con quattro martellate in testa. Poi
l’accoltella al ventre, causando la morte del feto. Infine la
cosparge di giornali e liquido infiammabile appiccando il fuoco. «Mi
ha dato quattro martellate, mi ha ficcato un coltello nell' addome
poi mi ha gettata fuori dall' auto. Purtroppo non era ancora
soddisfatto: ha preso dal bagagliaio una tanica con del combustibile
per mezzi agricoli, me l' ha gettato addosso e mi ha dato fuoco. "Se
non posso averti - mi ha gridato - non deve averti nessuno"».
Si allontana solo quando Barbara si finge morta. Ma Barbara
Bartolotti non è morta. Pensando ai suoi
figli
la donna trova la forza di alzarsi, spegnere le fiamme e chiedere
aiuto a due ragazzi che passano in macchina.
Dopo
10 giorni esce dal coma, l’aspettano 6 mesi di ospedale, 27
interventi per le ustioni di terzo grado riportate al viso, al petto,
alle gambe e al ventre dentro al quale, subito dopo l' aggressione,
il cuore del suo terzo figlio aveva smesso di battere.
Il
suo aguzzino, incensurato, si è avvalso del patteggiamento e rito
abbreviato; viene considerato dai giudici colpevole solo di lesioni
gravissime e non di tentato omicidio. Avrebbe dovuto scontare 25 anni
di carcere, ma alla fine se la cava con appena 4
anni di domiciliari.
Con l’
indulto non ne ha scontato
nemmeno uno.
Lei
è stata licenziata. Lui
invece ora lavora in banca, ha fatto carriera e si è sposato.
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