mercoledì 29 maggio 2019

Donne, Violenza, Giustizia




Questa è la storia di Barbara Bartolotti. 
Barbara all’epoca dei fatti, nel 2003, aveva 29 anni, un marito poliziotto e due bambini. Lavora come contabile in un’azienda edile di Palermo. Scopre di aspettare il terzo figlio e a questa notizia un suo collega, da tempo segretamente invaghito di lei, reagisce male. L’uomo non accetta che la donna non possa essere sua, nonostante fra loro non ci sia mai stata una relazione. 
Con il pretesto di un sopralluogo lavorativo, l’uomo porta Barbara in un luogo isolato e mentre lei chiama al cellulare il marito la colpisce alle spalle con quattro martellate in testa. Poi l’accoltella al ventre, causando la morte del feto. Infine la cosparge di giornali e liquido infiammabile appiccando il fuoco. «Mi ha dato quattro martellate, mi ha ficcato un coltello nell' addome poi mi ha gettata fuori dall' auto. Purtroppo non era ancora soddisfatto: ha preso dal bagagliaio una tanica con del combustibile per mezzi agricoli, me l' ha gettato addosso e mi ha dato fuoco. "Se non posso averti - mi ha gridato - non deve averti nessuno"». Si allontana solo quando Barbara si finge morta. Ma Barbara Bartolotti non è morta. Pensando ai suoi figli la donna trova la forza di alzarsi, spegnere le fiamme e chiedere aiuto a due ragazzi che passano in macchina.
Dopo 10 giorni esce dal coma, l’aspettano 6 mesi di ospedale, 27 interventi per le ustioni di terzo grado riportate al viso, al petto, alle gambe e al ventre dentro al quale, subito dopo l' aggressione, il cuore del suo terzo figlio aveva smesso di battere.

Il suo aguzzino, incensurato, si è avvalso del patteggiamento e rito abbreviato; viene considerato dai giudici colpevole solo di lesioni gravissime e non di tentato omicidio. Avrebbe dovuto scontare 25 anni di carcere, ma alla fine se la cava con appena 4 anni di domiciliari. Con l’ indulto non ne ha scontato nemmeno uno.
Lei è stata licenziata. Lui invece ora lavora in banca, ha fatto carriera e si è sposato.






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